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GIUSEPPE LUIGI NICOLOSI

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Essere genitori di un bambino con handi­cap non è un ruolo che una persona sce­glie. Nessuno chiede di esserlo, né c’è chi è preparato ad una responsabilità così fati­cosa ed impegnativa: è un compito diffici­le che spesso atterrisce e demoralizza. Oltre a ciò, nonostante la nostra società stia di­ventando sempre più consapevole delle necessità dei diversi, i genitori di bambini con handicap si trovano di fronte ad incompren­sioni e ad una società che è intollerante del­le devianze dalla norma.

Bisogna tenere presente, inoltre, che un bambino portatore di handicap è prima di tutto un bambino e che i suoi genitori incon­trano situazioni e condizioni che gli altri non dovranno mai affrontare, pur essendo il lo­ro ruolo lo stesso.

Una coppia che aspetta un figlio, di solito fa sogni e fantasie sul suo futuro, non esclu­so lo stereotipo culturale del bambino ideale che possiede gli attributi necessari ad ave­re successo nella vita.

Del resto la società favorisce queste aspet­tative: impariamo a prevedere e aspettarci il successo, la promozione sociale, l’amore. Con la nascita di un bambino handicappa­to o la scoperta in un momento successivo che il figlio è diverso, come afferma Ross [1]: « la realtà contraddice crudelmente le aspet­tative dei genitori ».

Finiscono le speranze, i sogni, le fantasie e questo divario fra aspettative e realtà osta­cola in misura ancora più grande la capa­cità di affrontare la situazione.

Un bambino può essere considerato come il risultato di un atto d’amore, cioè come una realizzazione personale.

Un figlio normale viene quindi visto come un riflesso delle proprie capacità, mentre un figlio handicappato può essere vissuto co­me una proiezione esterna della propria ina­deguatezza, dell’inutilità, del fallimento, in particolare da parte della donna.

Il figlio handicappato è spesso visto come un segno della disapprovazione divina, del­la punizione peri propri peccati. A volte, tut­tavia, secondo la fede o l’orientamento re­ligioso dei genitori, la nascita di un bambi­no handicappato può anche essere inter­pretata come il segnale di un disegno divino, da accettare senza disperazione.

In alcune famiglie avere un figlio handicap­pato è una tragedia, in altre è una crisi che può risolversi. Nella maggior parte dei casi genitori non hanno esperienza e sono impreparati a trattare un handicap. Di soli­to si prevede che i genitori di un bambino handicappato, nel loro processo di adattamento, passino attraverso diversi stadi, da quelli iniziali in cui prevalgono il senso di col­pa e lo shock, a quelli finali dell’accettazio­ne e dell’adattamento. Più specificatamente dopo lo shock iniziale, accompagnato da un senso di vuoto e di distacco fisico del­l’evento, il genitore, rendendosi conto di questa ineluttabile realtà, passa alla secon­da fase, alla quale si associano le tensioni pio pesanti: sia il marito che la moglie si ren­dono conto che questa situazione non è un sogno, ma è realtà permanente. A questo punto sopraggiunge la terza fase caratte­rizzata da una ritirata difensiva durante la quale l’individuo non è più capace di con­trollare la situazione e non vuole assolu­tamente ammettere che è avvenuto un cam­biamento fatale a cui deve adattarsi.

Subentra poi una maggiore consapevolezza accompagnata quasi sempre da un perio­do di profonda depressione che caratterizza la quarta fase, cui segue l’ultima di adattamento e di accettazione, nella quale si al­lenta lo stato ansioso e aumentano i senti­menti di autocompiacimento e di auto soddisfazione per i piccoli e grandi progressi raggiunti dal figlio: i valori che contano ven­gono percepiti in una prospettiva più chiara. Concludendo questa breve analisi dei vari tipi di reazione dei genitori, è importante ri­cordare che nessuno può prevedere come essi risponderanno, così come non si può prevedere come noi stessi ci comporteremo.

Le reazioni dei genitori dipendono dalla loro percezione del problema, poiché sono basate sulle emozioni e sull’intensità dei sen­timenti. Quindi ogni situazione è unica e passaggio dall’una all’altra delle fasi che ho descritto sarà diverso da caso a caso: per qualcuno il processo sarà eccessivamente lento, per altri sarà graduale, mentre per altri ancora la pena, il dolore, il disappunto, an­che se andranno diminuendo nel tempo, sa­ranno sempre presenti.

Può darsi che tutti i genitori debbano « riciclarsi » ritornando a fasi precedenti in momenti chiave della propria vita o della vita del figlio per esempio, quando anticipano il pensionamento, quando il figlio adole­scente non è invitato ad una festa o quan­do non riesce a partecipare alle attività sportive con i compagni.

Perciò gli educatori devono stare attenti a non incasellare i genitori dentro degli stereotipi e considerare invece le loro reazio­ni come legittime e normali risposte umane.

Le dinamiche familiari

Se si considera la famiglia come un siste­ma interdipendente in cui bisogni e obietti­vi comuni trovano risposta nell’intersezione dei singoli componenti, allora i problemi dell’handicap si possono vedere e trattare come i problemi dell’intero nucleo familiare. Quando si valuta l’influenza che un figlio handicappato ha sulla famiglia, si deve trat­tare ogni situazione singolarmente. Alcune variabili collegate con le capacità delle famiglie di cavarsela con il familiare portatore di handicap dipendono fra l’altro dai genitori, dalla classe sociale, da grado di parentela, dal livello economico e di istru­zione, dalla fede religiosa, dal sesso del figlio.

Un bambino handicappato può aggravare delle tensioni preesistenti o anche far precipitare la situazione fra marito e moglie fi­no all’abbandono o al divorzio, come può far rafforzare il matrimonio. Mentre fino a po­co tempo fa la maggior parte delle ricerche sulle famiglie con bambini disabili hanno focalizzato quasi esclusivamente i problemi del bambino con handicap nello studio dei rapporti madre/figlio, l’attenzione si sta gra­dualmente spostando sul padre, sui fra­telli, sulle sorelle e sui nonni dei bambini mi­norati.

 

Il padre

Gli uomini nella maggior parte dei casi la­vorano molte ore al giorno hanno poco tempo da dedicare alla famiglia. Comun­que, tra questi, i professionisti considerano l’educazione dei figli come parte dei loro doveri.

I padri non sono destinati solo a provvede­re semplicemente al mantenimento della prole, ma devono svolgere un ruolo impor­tante di interazione affettiva. Possono infatti procurare ai figli una quantità di preoccu­pazioni interiori. Inoltre non si dovrebbe ap­prendere solo dalla madre ma da entrambi i genitori, ognuno con il suo ruolo.

Si è anche notato che quando i padri non partecipano direttamente al programma d’intervento, perdono l’opportunità e le basi necessarie per trovare un comportamento idoneo col bambino minorato.

I fratelli

Gli altri figli hanno un ruolo fondamentale nel dramma familiare, sia come fonti di so­stegno che di sconforto. Spesso si trovano ad essere i depositari di aspettative impa­ri, quasi a compensare le delusioni dei ge­nitori, oppure sono oggetto di incombenze e devono trasformarsi in balie indaffarate dei fratelli minorati come per compensarli della disparità di condizioni.

Altra difficoltà per loro è quella di contene­re gli atteggiamenti dei vicini nei confronti della loro famiglia diversa, difficoltà da cui derivano sentimenti di frustrazione.

Inoltre possono sentirsi ignorati dai genito­ri che non dimostrano troppe attenzioni per loro.

C’è poi una grande differenza tra i maschi e le femmine nel comportamento. I maschi hanno rivelato una mancanza di informazio­ni su questi problemi, mentre le femmine hanno manifestato un rapporto più stretto e responsabile con il fratello minorato non solo da piccolo ma anche dopo la maturi­tà. Di solito infine i fratelli più vicini per età al fratello handicappato hanno più spesso difficoltà di inserimento.

I nonni

Hanno bisogno di essere informati e rassi-curati, ma di solito, non hanno l’energia e i mezzi necessari per essere coinvolti in mo­do efficace nel programma educativo.

Educatori e famiglia

Da quanto esposto risulta ovvio che la fa­miglia di un bambino handicappato va in­contro a grossi problemi psicologici, eco­nomici e sociali, ragione per cui gli edu­catori non dovrebbero rispondere solo ai bisogni del bambino, ma dovrebbero mo­strare interesse per tutta la situazione fa­miliare.

La famiglia, infatti, è coinvolta dall’handicap e poiché non tutte le famiglie sono colpite allo stesso modo, si dovrebbe fornire un’as­sistenza individualizzata che risponda alle necessità dei singoli casi. Se gli operatori riuscissero a dimostrare sensibilità per ogni famiglia, in quanto entità unica, l’aiutereb­bero a crescere e a funzionare appunto co­me una unità.

Purtroppo si è fatto qualcosa solo sul pia­no giuridico-economico, relativamente all’inserimento del bambino handicappato, ma è stato fatto molto poco dal punto di vista psicoterapeutico nei riguardo della famiglia per farla sentire meno sola, meno imprepa­rata all’educazione del figlio, meno in ba­lia della paura. Occorrerebbero dei centri clinico-pedagogici per dare consigli utili per l’educazione.

Attualmente questo ruolo è ricoperto dall’equipe socio-psico-pedagogica delle U.S.L., che però talvolta delude le aspettative dei genitori, causando l’interruzione dei pro­cessi di comunicazione tra famiglia ed e­sperti.

Perché questo non accada e, perché il rap­porto tra i genitori e gli specialisti sia si­gnificativo, sono indispensabili a mio avvi­so, due elementi: la comunicazione e il ri­spetto.

La capacità di comunicazione può essere appresa e incoraggiata, il rispetto invece, nasce a poco a poco. Un altro elemento im­portante è la sensibilità verso i genitori e i bisogni del bambino. Ciò che infatti spesso i genitori ricordano di più del loro incon­tro iniziale con gli specialisti è la qualità del rapporto che hanno con loro.

Un rapporto sano fra operatori e genitori, fatto di buona comunicazione, rispetto e sensibilità, implica per gli esperti il ricono­scimento delle paure e dei pregiudizi e il ri­fiuto del tradizionale modello di ruolo su­periore (il loro) e inferiore (dei genitori) al quale molti sono abituati.

Gli operatori dovrebbero abbandonare il vecchio ritornello che « loro » sanno che cos’è meglio fare: non possono più attaccarsi al dogma della loro onniscienza.

Spetta ai genitori per diritto e responsabi­lità operare le opportune scelte, in ciò devono essere adeguatamente e completa­mente aiutati dagli esperti. Maggiore è il coinvolgimento dei genitori, maggiore è l’ef­ficacia del rapporto, perché la loro partecipazione è la chiave del successo. Per­ciò, quando programmazione e strategie procedono di pari passo, è più probabi­le che si ottengano buoni servizi e molti vantaggi.

 

Gli atteggiamenti negativi dei genitori

Uno degli atteggiamenti più comuni dei ge­nitori è quello di essere concentrati esclu­sivamente sull’handicap del figlio, sulla sua diversità.

La certezza dell’handicap impedisce loro di comportarsi come genitori dei bambini normodotato.

Questo modo di agire può condurre a bloc­care la comunicazione con il figlio, con gravi conseguenze sia sul piano psicologico, per­ché il bambino rischia di diventare psicoti­co o autistico, sia sul piano prettamente linguistico-comunicativo, perché il bambi­no col tempo può accusare dei disturbi di linguaggio.

Nel caso che venga stabilita la comunica­zione col figlio, i genitori spesso non riescono a renderlo autonomo, perché hanno un atteggiamento iperprotettivo basato su un legame di dipendenza socio-linguistica. Ciò vaie soprattutto per la madre che impedi­sce al figlio handicappato di vivere come persona autonoma e di conseguenza svi­luppa in lui atteggiamenti comportamentali negativi, quali la sedentarietà, l’inoperosità e In vocalità compensativa, quest’ultima so­prattutto nei bambini con minorazione visiva.

Un atteggiamento dei genitori opposto al precedente è quello dell’iperstimolazione. Altro tipico atteggiamento che si può in­contrare è quello definito « consumista ». È il comportamento tipico dei genitori che appartengono a una fascia di livello cul­turale medio-alta; essi richiedono più visite dello stesso specialista, poi di più specia­listi o degenze cliniche, in modo che una

diagnosi segua all’altra senza possibile so­luzione. Diventano così dei « consumatoti » di terapie, alla continua ricerca di nuove cure, tecniche o programmi di riabilitazione. Questo comportamento può risultare non solo inopportuno per il bambino, per­ché richiede troppo tempo, oltre che ener­gia e denaro, ma anche dannoso per la famiglia stessa, coinvolta in lunghi viaggi e spesso costretta a cambiare luogo di re­sidenza.

Nell’interazione con gli operatori (psicolo­gi, terapisti, assistenti sociali, insegnanti) i genitori possono assumere due atteggia­menti negativi: o sono intimiditi o sono ag­gressivi.

Nel primo caso il genitore è intimidito dal­l’esperto, ne ha quasi un rispetto reverenziale, teme di procurargli disturbo e, quindi, preferisce o non avere rapporti con lui o, se li ha, non sono spontaneamente richiesti. Vive l’handicap del figlio come un fatto esclusivamente personale e non sociale, quindi, probabilmente, ritiene disdicevole coinvolgere « gli estranei » nel proprio do­lore o nella propria sofferenza. Nel caso op­posto, il genitore ha un atteggiamento aggressivo nei confronti non solo dell’in­segnante di sostengono e della scuola generale, ma anche degli operatori delle UU.SS.LL forse perché ha riposto nel figlio aspettative eccessive o inadeguate alle sue potenzialità.

Va detto comunque che i genitori non de­vono essere criticati ma capiti. Rendersi conto dei loro bisogni e dei loro problemi è fondamentale soprattutto nell’at­tività di sostegno.

Da  Rivista L’insegnante specializzato 3/94

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[1] Rosa A.: « t/bambino handicappato: un approc­cio funzionale ». New York Mc. Graw Hill 1975.

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