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LUCIA PETRANI

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Premessa

Il lavoro presentato in queste pagine si propo­ne di analizzare le forme di pregiudizio sociale che ancora permangono nei confronti dell’e­pilessia e che appaiono tutt’ora fortemente ra­dicate nella nostra cultura, nonostante i pro­gressi scientifici conseguiti in ordine alla sua eziologia, manifestazione e trattamento.

1  Alcune definizioni e frequenza della ma­lattia

Epilessia è una parola che deriva dal greco epilépsia, dal verbo epilambànein «attac­care (lambànein) sopra (epi)», che significa essere colto di sorpresa, essere preso alla sprovvista.

Alcune definizioni di questa sindrome clinica tratte dalla letteratura più recente aiutano a delinearne gli aspetti caratterizzanti.

L’epilessia è una malattia del cervello carat­terizzata dalla comparsa parossistica di feno­meni molto vari (contrattura, scosse cloniche, disturbi della coscienza, disturbi sensitivi, sen-soriali, disturbi psichici).

Il quadro clinico si instaura dunque brusca­mente ed ha una durata breve. La definizione neurofisiologica di H. Jackson è un valido contributo: « sopraggiungere epi­sodico di una scarica brusca, eccessiva e ra­pida a carico di una popolazione più o meno estesa di neuroni che costituiscono la sostan­za grigia dell’encefalo ». (Augustin P., Neu­rologia, Milano, Ed. Masson, 1992, p. 66).

L’epilessia è una malattia del sistema nervo­so dovuta ad una improvvisa iperattività di una o più zone del cervello che perdono mo-mentaneamente il proprio normale funziona­mento. (Associazione Toscana per la lotta contro l’epilessia, Oggi ha l’epilessia domani sarà un uomo sano, Servizio editoriale della Giunta regionale della Toscana, Tipografia « Il Sedicesimo », Firenze, s.d.).

Si definisce epilessia una particolare situazio­ne caratterizzata dal ripetersi nel tempo di crisi epilettiche: non va pertanto ritenuto affetto da epilessia chi abbia presentato una sola crisi. Va comunque subito sottolineato che non è corretto parlare di epilessia, bensì di epiles­sie; ciò perché in realtà le crisi sono manife­stazioni comuni a situazioni varie (tipi diversi di epilessia), estremamente diverse tra loro dal punto di vista dell’evoluzione (che può es­sere pio o meno benigna).

[…] La scarica eccessiva può restare confinata ad un gruppo di cellule del cervello [crisi fo­cale o parziale], oppure interessare all’inizio solo un gruppo di cellule e successivamente diffondersi all’insieme delle altre [crisi parzia­le con generalizzazione secondarie]. In altri casi, infine, la scarica può interessare fin dall’inizio e nello stesso tempo tutte le cellule del cervello [crisi generalizzata]. (Bianchi A. et Alt,, Contro l’epilessia, a cura della Lega Italiana contro l’epilessia, giugno 1990).

« Piccolo e Grande Male »

Il Grande Male ed il Piccolo Male sono due tipi di epilessia generalizzata. La crisi tonico-clonica del Grande Male ha un inizio brutale,, evidenziato, da un grido, da una caduta e da una perdita di coscienza totale ed immedia­ta. Essa dura dai cinque ai dieci minuti.

Il Piccolo Male o le « assenze », tipiche del­l’infanzia, consistono in una breve sospensio­ne della coscienza della durata di qualche secondo, senza perdita di tono muscolare né caduta, durante la quale il bambino si immo­bilizza, sembra sognare, interrompe la sua at­tività, non risponde più alle domande. Egli riprende molto in fretta coscienza e continua la sua attività come se non vi fosse stato nul­la. Non ricorda niente delle crisi ma può iden­tificare a posteriori la sua assenza attraverso rimproveri dell’ambiente o il distacco consta­tato durante una conversazione.

Nel corso dei secoli, [‘epilessia è presente in tutti i Paesi, in tutte le razze e in tutte le culture. Ippocrate diceva: « Quando si sono superati i venti anni, questo male, se non è congenito fin dall’infanzia, non colpisce più che pochi

o nessuno […] ». (Vegetti M. Opere di Ippocrate, Torino, UTET, 1965, pp. 283-284). In­fatti, l’epilessia colpisce in misura elevata l’età infantile e diminuisce considerevolmente con l’età adulta. E ciò è confermato da alcune ri­cerche epidemiologiche secondo cui il 50% delle epilessie comincia prima dei 10 anni, il 30% tra i 10 e 29 anni, mentre la loro inciden­za sarebbe da ,5 a 10 casi ogni 1000 abitanti. (Dravet Ch., Jallon P., Il bambino con epiles­sia, Roma, Ed. Boria, 1988, pp. 14-15).

2 Cenni storici sull’epilessia

2.1. Il « morbo sacro »

L’epilessia è, forse, una delle prime malattie presenti fin dagli albori dell’umanità. Già nel codice di Hammurabi (2000 a.C.) è possibile rinvenire norme relative alle persone epi­lettiche.

I Greci la chiamavano « morbo sacro » in quanto credevano che la causa e la cura di essa fossero note solo agli dei. Consideravano pertanto l’epilessia come un evento magico-religioso, sovrannaturale, una sorta di possessione divina o demoniaca a carico di un essere umano. Tali superstizioni vennero peraltro contestate da Ippocrate (IV sec. a.C.). In un suo saggio, intitolato “La malattia sa­cra” (che rappresenta la prima opera dedi­cata all’epilessia) si legge:

Il male cosiddetto sacro […] ha struttura natu­rale e cause razionali […].

In verità io ritengo che i primi a conferire un carattere sacro a questa malattia siano stati uomini quali ancora oggi ve ne sono, maghi e purificatori e ciarlatani e impostori, tutti che pretendono d’essere estremamente devoti e di veder più lontano. Costoro […] affinché la propria totale ignoranza non fosse manifesta, asserirono che questo male era sacro […] distribuivano purificazioni e incantesimi, ingiungevano di astenersi dai bagni e da molti ci­bi che non opportuno che i malati mangino […].

Ma di fatto responsabile di questo male è il cervello […]. Quanti sono consueti al male, prevedono l’im­minenza dell’attacco, e fuggono via dagli uomini, a casa se la loro casa è vicina, oppure nel luogo più deserto, dove pochissimi pos­sano vederli cadere, e subito celano il capo: e ciò fanno per vergogna del male, e non co­me credono molti, per paura dei divino.

I bambini invece le prime volte cadono lad­dove capita, […] giacché non conoscono an­cora la vergogna. (Vegetti M., op. cit., pp. 271-272-273-277-284 e 285).

La lunga citazione consente di evidenziare co­me l’autore imposti lo studio dell’epilessia se­condo canoni che oggi potremmo definire propri della conoscenza scientifica, conside­rando il cervello l’organo centrale del siste­ma nervoso e rifiutando superstizioni corredate anche al senso di vergogna di chi ne era af­fetto e all’ignoranza.

Dunque accanto alla medicina magico-religiosa, praticata dai sacerdoti nei tempri di Asclepio (dio della medicina), emerse, molto gradualmente, anche la medicina « laica » basata su elementi razionali, forniti dall’espe­rienza.

2.2. Un segno di cattivo presagio

I Romani oltre che « morbus sacer » definiva­no l’epilessia anche « morbus comitialis ». Essi consideravano l’attacco epilettico come un cattivo presagio, un segno attraverso cui gli dei esprimevano la loro irata disapprovazione per qualche fatto o comportamento umano, a tal punto che se un partecipante ai « comitia », presentava convulsioni, questi venivano inter­rotti; di qui la dizione « sindrome comiziale », ancor oggi in uso, sinonimo di epilessia.

Anche Giulio Cesare soffri di epilessia, così Shakespeare ce ne riferisce:

Cassio: Di grazia, te ne prego: Cesare è dun­que proprio svenute?

Casca: È caduto per terra in mezzo al foro, gli è venuta la bava alla bocca, e per un trat­to, non ha potuto nemmeno articolar parola.

Bruto: È molto probabile, infatti: ha il mal ca­duco. (Shakespeare W., Giulio Cesare, Mila­no, ed. Rizzoli, 5° Ed. BUR, 1990, p. 49).

2.3. L’epilessia come segno della presenza del maligno

Un’ulteriore testimonianza del carattere sovrannaturale dell’epilessia si riscontra anche nel Vangelo, nel passo dedicato a « L’epilet­tico indemoniato » (S. Marco, 9). In esso si leg­ge: « Maestro, 11o portato a te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigno i denti ed egli si irrigidisce ». Allora Gesù fe­ce guarire il ragazzo eliminando lo spirito e sordo e dicendo, poi, ai suoi discepoli che solo con la preghiera è possibile scac­ciare « questa specie di demoni », (cfr. S. Matteo, 17).

È proprio alla crisi di Grande Male, con le sue manifestazioni spettacolari, che sono stati at-tribuiti caratteri sovrannaturali. Secondo l’ot­tica dei primi cristiani tali manifestazioni venivano giustificate dalla credenza della pos­sessione demoniaca. Questa era rapportata al carattere morale (passioni, violenze, pec­cati, ecc.) di colui che ne era colpito. I Santi potevano eliminare il male ma anche provo­carlo se venivano loro recate offese. Le figu­re taumaturgiche di Santi patroni dell’epiles­sia, in genere si riferiscono a soggetti che ave­vano subito il martirio della decapitazione, e da ciò ebbe origine il loro patrocinio sui mali localizzati nella testa. Ecco perché l’epilessia viene gestita, per molto tempo, quasi esclu­sivamente dal clero.

In campo strettamente terapeutico viene fatto ricorso a formule e riti suggestivi, a sostan­ze nocive ed inefficaci, a particolari digiuni, ecc.. Si consigliava, per esempio, di bere san­gue umano, di fare uso di purghe e salassi a scopo preventivo, ecc..

2.4. Individui oggetto del disprezzo sociale

Durante il Medio Evo l’aspetto sovrannaturale attribuito all’epilessia viene ancor più accen­tuato ribadendo così la sua origine demonia­ca. Un esempio di ciò ci viene offerto dallo stesso Dante, nel canto XXlV dell’Inferno, ove paragona la pena alla quale è stato condan­nato Vanni Fucci ad una crisi epilettica:

E qual è quel che cade, e non sa come, per forza di demon ch’a terra il tira, o d’altra oppliazion che lega l’orno, quando si leva, che intorno si mira tutto smarrito de la grande an­goscia ch’elli ha sofferta, e guardando sospi­ra: rai era ‘1 peccator levato poscia. (Inferno, vv. 112-118).

Siffatta concezione portò ad addossare sul­l’epilettico il massimo del disprezzo sociale, fino a giungere alla sua eliminazione fisica. In nome della fede furono infatti mandati al ro­go migliaia di epilettici considerati come indemoniati. In Scozia, ad esempio, dove la malattia epilettica era considerata ereditaria, si usava castrare il maschio e rinchiudere la donna; se poi, nonostante tale limiti, una don­na risultava in stato gravidico, allora essa ve­niva sepolta viva con la prole in seno.

L’emarginazione sociale del soggetto « pos­seduto » ebbe ulteriormente modo di conso­lidarsi con la diffusione del pregiudizio della contaminazione, secondo il quale anche so­lo col respiro l’epilettico poteva contagiare le persone che gli erano accanto.

 

2.5. L’età moderna e i contributi scientifici più recenti

Nella seconda metà del ‘500, Paracelso, medico-filosofo-umanista, scrisse due trattati sul­l’epilessia, giudicandola una malattia astrale per eccellenza. Ma nonostante lo slancio culturale e scientifico del periodo rinascimentale l’epilessia rimase avvolta nella tradizione demonologica.

Una svolta importante nei confronti della sto­ria dell’epilessia, si riscontra con il pensiero illuminista; quando il medico svizzero Tissot cominciò a studiare le cause della malattia dividendole in predisponenti e determinanti. Si trattò di un orientamento nuovo e decisivo, mediante il quale le cause morali (passioni, tormenti, violenza, ecc.) vennero distinte da quelle fisiche (traumi cranici, parti distocici, si­filide, ecc.).

La vera e propria ricerca scientifica sull’epilessia inizia con il neurologo inglese Hughlings Jackson (1831-1911), che per primo individuò il meccanismo interno della scarica elettrica nel cervello ed elaborò una teoria tutt’ora attuale. Nonostante le acquisizioni ma­turate attraverso tali ricerche i pregiudizi in merito all’epilessia continuarono ad essere tanto tenaci quanto diffusi. Si racconta, ad esempio, che Gustave Flaubert (1821-1880) da bambino era affetto da Piccolo Male e che suo padre, nonostante svolgesse la professio­ne di medico, lo rimproverasse considerandolo distratto e disinteressato allo studio.

Cesare Lombroso, (1835-1909), psichiatra, antropologo e criminologo, nel suo libro L’uo­mo delinquente, arrivò ad attribuire agli epi­lettici condotte delinquenziali, tendenze caratteriali ed omicide. Nel testo Cesare Lombroso ovvero il principio dell’irresponsabilità di Pier Luigi Baima Ballone, infatti, si legge:

[…] Lombroso scopre ben presto altre categorie di delinquenti, di occasione, di abitudi­ne, di passione, cui si aggiungono gli epilet­tici e i pazzi.

L’intelligenza è abolita nelle demenze, nell’e­pilessia […]. Delinea [Lombroso] innanzitutto la figura del pazzo morale e del delinquente epilettico tra cui individua un notevole parallelismo.

[…] l’epilettico e il mattoide hanno una con­formazione tale che li determina a condotte antisociali. Il comportamento criminale ne è la conseguenza diretta. (Baima Ballome P., Cesare Lombroso ovvero il principio dell’irresponsabilità, Torino, Ed. SEI, 1992, pp. 107-112-137-166).

Le concezioni di Lombroso contribuirono così al persistere di una emarginazione sociale del soggetto in questione, generalmente curato e ricoverato in manicomi o in cliniche psichia-triche e dunque identificato come malato mentale. (Si tenga presente che all’epoca mancava una netta differenziazione tra neu­rologia e psichiatria).

Anche Freud si interessò di epilessia. Egli stinse nel suo saggio « Dostoevskii e il parricidio» (1927), due tipi di epilessia, una « organica » e una « affettiva ». La prima ri­guardava il cervello, la seconda la psiche. Freud ipotizzò così che la natura della ma­lattia epilettica di cui soffriva il famoso scrit­tore russo appartenesse a quest’ultima ca­tegoria. Nonostante gli scarsi dati anamnestici sulla cosidetta « istereoepilessia » di Dostoevskij, egli ritenne di aver individuato il mo­mento scatenante della malattia di quest’uo­mo: l’assassinio del padre da parte della sua servitù. Secondo Freud, il rapporto conflittuale che Dostoevskij aveva con il padre, particolarmente duro e tirannico, e la sua conse­guente intenzione parricida lo indussero ad una reazione autopunitiva mediata dagli at­tacchi. A testimonianza della sua tesi Freud scrive:

Se rispondesse al vero che Dostoevskij in Siberia dove era stato condannato ai lavori for­zati a causa di motivi politici] non ebbe a patire di attacchi, ciò non farebbe che con­fermare che i suoi attacchi epilettici erano la sua punizione: quando era punito in altri mo­di non ne aveva più bisogno. (Freud S., Shakespeare, Ibsen e Dostoevskij, Torino, Ed. Boringhieri, 1991, p. 77).

Solo ai nostri giorni, l’ipotesi ippocratica che si dovessero cercare nel cervello le vere cau­se dell’epilessia, ha trovato conferma.

Oggi mediante l’uso dell’elettroencefalografia (E.E.G.) è possibile registrare l’attività bioelettrica cerebrale e dunque diagnosticare, an­che, le diverse forme di epilessia. Un ulteriore ausilio strumentale ci è offerto dalla tomografia assiale computerizzata (T.A.C.) e dalla riso­nanza magnetica nucleare (R.M.N.). Entram­be queste metodiche, attraverso l’emissione di raggi o di campi magnetici che vengono variamente assorbiti dai tessuti interessati, e tramite un computer che traduce in immagi­ni alcuni parametri vitali è possibile esamina­re il cervello in strati successivi, ed evidenziare l’eventuale presenza di atrofie, cicatrici, malformazioni od altre neoformazioni che possono essere all’origine della malattia in que­stione.

3 Il Pregiudizio sociale

Per le sue radici storiche, l’epilessia — nono­stante i notevoli progressi scientifici — è an­cora oggi accompagnata da pregiudizi e da stereotipi, cioè da valutazioni rigide, semplifi­cate e spesso infondate da parte dell’indivi­duo o dei gruppi sociali. Lo stesso grande epilettologo Lennox definì il pregiudizio nei confronti della patologia che stiamo esami­nando nei seguenti termini: « Tra tutte le ma­lattie esistenti l’epilessia è senz’altro quella nell’ambito della quale i pregiudizi sociali so­no più gravi della stessa affezione ».

Nel nostro contesto socio-culturale la « testa » ha un valore simbolico fondamentale, in quan­to rappresenta la sede della normalità intel-lettiva ed etico-morale. Pertanto se l’epilessia è localizzabile nel cervello, quest’ultimo viene considerato dalla cultura dominante permanentemente e globalmente alterato in modo irreparabile in tutte le sue componenti. Tale preconcetto, tanto evidente quanto devastante, ha generato paure ingiustificate relative dia inguaribilità, alla pericolosità socio-comportamentale e alle compromissioni psicosessuali. Questi fenomeni, derivanti « dal­l’immaginario sociale », sono ampiamente diffusi nella nostra struttura culturale e met­tono in luce anche la scarsa differenziazione tra epilessia e malattia mentale. A tale riguardo significativi sono i dati emersi da una re­cente indagine realizzata dalla « Lega Italiana contro l’epilessia ». La ricerca ha evidenziato che:

  • il 27% degli italiani non sa che cosa sia l’epilessia;
  • 1’8% considera l’epilessia una devianza mentale;
  • il 31% considera l’epilessia una malattia cronica dalla quale non è possibile gua­rire;
  • l’11% è contrario al fatto che il proprio fi­glio frequenti soggetti che ne sono colpiti.

Dai dati emerge un quadro dal quale si rile­va non solo una ridotta conoscenza del pro­blema, ma anche la presenza di diffusi at­teggiamenti di emarginazione sociale nei con­fronti degli epilettici che tendono a generaliz­zare il giudizio negativo su tutti i soggetti colpiti e a compromettere il loro futuro d’integrazio­ne. Tale atteggiamento è ancor più dannoso se si pensa che anche il mondo dei bambini e dei giovani ne è colpito.

3.1. Alcune testimonianze

A testimonianza di quanto finora detto, riten­go opportuno riportare alcuni stralci di una let­tera inviata da una giovane, affetta dalla patologia in questione, alla Lega Francese contro l’epilessia, la ragazza scrive:

… ho incontrato delle difficoltà non solo nel­l’ambiente scolastico ma anche in quello di lavoro dove avevano scoperto la mia epiles­sia. Questa malattia presenta tutt’ora un risvol­to imbarazzante e l’ignoranza e i pregiudizi della gente sono la cosa che più fa male. Ma io sono una di quelle che vivono senza gros­si problemi, grazie ai risultati di una buona te­rapia che ha cancellato le mie crisi. Ciò che non sopporto è la « discriminazione » eserci-tata contro l’epilessia.

Le mie prime difficoltà le ho incontrate a scuo­la; fin dal penultimo anno di liceo ero stata giu­dicata incapace di superare gli esami di ma­turità.

Preciso che ottenni il diploma di maturità e mi laureai e specializzai in seguito in lingue stra­niere applicate ….

Ho avuto lo stesso tipo di problemi quando ho lavorato in un asilo; sorvolo sui metodi usati per convincermi a lasciare quel posto…

Considero tutti questi atteggiamenti emarginanti del tutto scioccanti, peggiorati inoltre dal­la nostra impossibilità a poterne discutere, visto che non ce n’è data alcuna possibilità […]. Tuttavia conduco una vita normale, ho un figlio, ho potuto studiare… Voleva solo of-frirvi la mia testimonianza e dirvi che trovo inammissibile la nostra emarginazione… (Draver Ch., Jallon P., ap. cit., pp. 174-175).

Un’altra testimonianza:

Aveva 11 anni, frequentavo una scuola reli­giosa e avevo avuto la mia prima crisi in clas­se, otto giorni prima; il medico che mi ave­va visitata aveva scritto in seguito una lettera all’infermiera della scuola, spiegandole ciò che avrebbe dovuto fare in caso di una nuo­va crisi. Ma il giorno della mia prima crisi si disse all’intera classe che io ero posseduta da un demonio, che bisognava pregare Dio per il bene della mia anima ed era meglio non starmi vicino. Da quel momento le mie col» paghe mi lasciarono sola, carne se avessero paura; solo una fece eccezione, Barbara; sua madre infatti sapeva, cosa fosse l’epilessia. Quando sopraggiunse una nuova crisi il mio professore prese una bottiglia di acqua be­nedetta e me ne verso un po’ sulla fronte chiedendo alle mie compagne di recitare il rosario.

In seguito, all’età di 18 anni, ottenni il diplo­ma di segretaria d’azienda e riuscii a trovare un impiego. Dopo una settimana di lavoro mi chiamò il capo ufficio per complimentarsi con me. Alla visita medica però dichiarai di esse­re epilettica e il 15omeriggio stesso il capo uf­ficio mi chiamò nuovamente per annunciar-mi, con tono imbarazzato, che problemi di bilancio gli impedivano di tenermi e dovevo cercarmi di conseguenza un altro posto. Mi confesso poi che nessuna grande società avrebbe accettato di assumere un impiegata epilettica. (Dravet Ch., Jatlon P., ap. cit., pp. 175-176).

Il brano è tratto da un libro scritto da Joan Forde, una ragazza epilettica che ha raccontato la sua storia personale. Nonostante il conti­nuo manifestarsi delle crisi Joan Ferale si è laureata, ha trovato un lavoro e si è formata una famiglia.

A conclusione di questo segmento del discor­so dedicato al pregiudizio sociale può esse­re opportuno citare uno stralcio di una re­lazione stesa, nell’anno 1987, da uno specialista in neurochirurgia, in riferimento ad una bambina affetta da epilessia post-traumatica, da me seguita in qualità di insegnante di so­stegno. In essa si legge:

L’epilessia, vista soltanto come espressione clinica di una disfunzione neurofisiopatologica […], sembra a mio parere alquanto riduttiva, perché non tiene conto dei determinismi psicologici che condizionano l’espressione stessa della malattia.

[…] Il rifiuto dell’epilettico da parte della so­cietà (considerato un vero e proprio archetipo medico) trae senz’altro origine dall’inconscio collettivo; nonostante tutti i progressi attuali è ancora presente la concezione del male epi­lettico come male « demoniaco e terrifico » ed il paziente è ancora considerato come «affer­rato o posseduto».

  1. Il soggetto epilettico e la scuola

4.1. Pregiudizi da rimuovere

Gli stereotipi culturali nei confronti dell’epiles­sia, di cui si è parlato precedentemente, guardano, in modo più o meno velato, anche il mondo della scuola, la quale non sempre è in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni specifici dell’alunno epilettico.

In riferimento al rapporto soggetto epilettico – insegnante, in genere, si riscontra da parte di quest’ultimo una scarsa od erronea cono­scenza del problema, unitamente all’esisten­za di pregiudizi nei riguardi dell’alunno che presenta tale patologia. Ad esempio, uno dei pregiudizi più ricorrenti riguarda il binomio epilessia-intelligenza; secondo luoghi comu­ni il soggetto epilettico è anche un insufficiente mentale. In realtà, l’epilessia non comporta necessariamente disturbi intellettivi od anche comportamentali. Si può del resto soffrire di epilessia essendo individui dei tutto normali. In questa sede l’analisi che ci proponiamo di condurre esclude i casi in cui oltre a tale ma­lattia è presente anche l’insufficiente menta­le. Del resto « La compromissione grave del­l’intelligenza è riscontrabile in circa il 7% dei casi con epilessia nell’età evolutiva […] », (Be­nedetti P., et Coli., Le epilessie dell’età evolutiva, Roma, Ed. Il Pensiero Scientifico, 1980, p. 97), mentre « […] 1’80-85% degli epilettici è normalmente scolarizzabile », (Bollea G., « L’epilettico e la classe », Boll. Lega It. contro l’epilessia, 1974, 7/8:21-28, p. 23). Secondo molti autori la presenza di determi­nate alterazioni della personalità, in soggetti epilettici, è pio dovuta alla terapia farmacologica e lo agli stimoli esterni provenienti dall’entourage d’appartenenza, che alla malattia in se stessa. Tali disturbi possono essere riconducibili alle seguenti tre sindromi:

  1. a) Sindrome eretistico-ipercinetica, la più fre­quente al di sotto dei dieci anni e caratte­rizzata da labilità d’umore, da disturbi del­l’attenzione e da instabilità psicomotoria;
  2. b) Sindrome bradipsichica, più evidente do­po i 13 anni, caratterizzata da mancanza d’iniziativa, da un rallentamento intelletti-vo e motorio, da incapacità a staccarsi dai concreto, da un linguaggio complicato e confuso, che si ripete; la perseverazione, la stereotipia e la viscosità risultano gli elementi tipici di questa sindrome;
  3. c) Sindrome esplosiva, più frequente nell’a­dolescenza caratterizzata da disforia, scarsissima sopportazione alle frustrazioni, col­lere violente ed improvvise con scarse mo­tivazioni.

Un’altra falsa credenza è quella di ritenere che lo sforzo intellettivo possa costituire fat­tore scatenante delle crisi, oppure che certi giochi o attività sportive possano alterare lo stato di salute del soggetto, predisponendo-lo ad eventuali attacchi. Al contrario, eccet­tuati quei casi in cui non è possibile controllare le crisi, i soggetti epilettici possono praticare quasi tutti gli sport, sia pure con qualche pre­cauzione, ad esempio evitando di nuotare da soli. In sostanza è necessario, con i giovani epilettici ben controllati, evitare qualsiasi differenziazione rispetto ai loro compagni, fa­vorendo, con opportuni accorgimenti, le loro esperienze conoscitive a livello cognitivo, senso-percettivo, spazio-temporale, linguistico-espressivo, ecc.. La loro vita dovrebbe svolgersi, quindi, normalmente, riconoscendo che le loro possibilità di andare incontro a dei ri­schi sono le stesse di quelle incontrate da ogni altro loro coetaneo.

4.2. Modalità comportamentali all’interno della scuola

La presenza di un epilettico nella classe può determinare, da parte degli insegnanti, una pluralità di modalità comportamentali, nel sen­so che si possono verificare forme di:

  • iperprotezionismo o di permissività;
  • rifiuto esplicito e totale;
  • pietismo;

La reazione dell’alunno, di fronte a tali atteggiamenti, può essere essenzialmente di due tipi: o chiusura (passivizzazione) con conse­guente inibizione delle capacità d’iniziativa personale e d’autonomia, o comparsa di for­me d’instabilità emotiva e d’aggressività. En­trambe le condotte, appena accennate, sono connotate da un’ansia di fondo e da uno sta­to di disagio interiore. In sostanza gli atteggiamenti dell’insegnante, sopra richiamati, finiscono con il condizionare negativamente lo sviluppo della personalità del soggetto, fa­cendolo sentire insicuro, non autosufficiente ed incapace di corrispondere alle aspettati­ve degli altri. Di conseguenza, tali fattori in­terferiscono in forma nociva non solo sui processi di crescita psicosociale, ma anche sul rendimento scolastico stesso. Infatti, se il bambino epilettico vive la scuola come una struttura emarginante, l’insuccesso scolastico è pressoché scontato. Tale condizione è re­sa ancor più grave in quelle situazioni in cui si viene a stabilire una sorta di alleanza incon­sapevole, tra genitori ed insegnanti, che fini­sce per consolidare quello stato di « diversità » del soggetto (figlio o alunno), al quale viene ad essere negata ogni possibilità di evoluzio­ne, in senso positivo, della sua condizione. A conferma di ciò è stato osservato che «A prescindere dai casi che presentano insuffi­cienza mentale, in circa il 50% dei bambini con epilessia il rendimento scolastico si dimo­stra insufficiente», (Benedetti P. et Coli., op. cit., p. 99). E su questa valutazione pesano appunto i pregiudizi sociali, non tanto i fattori oggettivi.

Un altro aspetto da tener presente è il rap­porto tra l’alunno epilettico e i compagni di classe. Quest’ultimi possono vivere la presen­za del compagno secondo atteggiamenti di­versi: d’indifferenza, di superiorità, di fastidio, d’intolleranza, d’imbarazzo, di paura, ecc.. Ciascuna di queste dinamiche relazionali è condizionata e accompagnata da svariati pre­giudizi, dal modo di rapportarsi da parte dei rispettivi genitori, degli insegnanti, dei medi­ci, ecc., nei confronti del soggetto epilettico e soprattutto dalla considerazione/attenzione che l’insegnante dimostra nei riguardi dell’a­lunno in questione. Pertanto in questi casi è importante che i docenti adottino un compor­tamento equilibrato che faciliti l’integrazione dell’alunno all’interno della classe e forniscano informazioni precise, chiare e comprensi­bili agli alunni, per aiutarli a comprendere le manifestazioni dell’epilessia senza disagio. Per fare ciò l’insegnante dovrebbe sostituire ai propri pregiudizi un comportamento che sia pedagogicamente legittimato.

Infine è bene ricordare che i pregiudizi esa­minati non riguardano esclusivamente gli in­segnanti, ma talvolta sono stati riscontrati an­che tra i medici stessi.

4.3 Indicazioni per una migliore integrazio­ne scolastica

A questo punto, alcune rapide indicazioni, di ordine pedagogico sembrano doverose. È imprescindibile che l’insegnante:

  • conosca l’anamnesi socio-familiare e per­sonale, dell’alunno, che includa in sé an­che la storia evolutiva della malattia;
  • imposti un piano di lavoro aderente alla situazione personale del soggetto, man­tenendo sempre viva la sua attenzione, evitando di proporgli attività non motivanti, passivizzanti, avulse dai suoi reali interes­si oppure troppo impegnative rispetto al­le sue reali capacità cognitive;
  • conduca in modo graduale e flessibile ogni attività intenzionalmente prevista;
  • interagisca positivamente non solo con la famiglia, ma anche con gli operatori dell’équipe medico-psico-pedagogica, se­condo una logica di corresponsabilità, che affronti in modo globale la situazione dell’alunno.

Per la realizzazione di tutto ciò è importante anche il ruolo svolto dal dirigente scolastico — direttore didattico e preside — come pun­to di riferimento e di supporto per l’esperien­za scolastica di questi soggetti. E auspicabile che egli promuova iniziative, per eliminare pregiudizi e difficoltà, avvalendosi di esperti, organizzi gruppi di lavoro tra i docenti, fornisca suggerimenti operativi, coordini incontri sistematici tra famiglia, operatori scolastici, socio-sanitari, ecc..

4.4. « Piccolo e Grande Male »

La letteratura scientifica, come abbiamo visto, distingue nel bambino forme epilettiche che si esprimono attraverso disturbi semplici della vigilanza (tipo « assenze ») da quelle che com­portano crisi convulsive (tipo Grande Male). Il Piccolo Male o le « assenze » (stato di non risposta agli stimoli), si osservano soprattutto nell’infanzia e sono rappresentate essenzialmente da una breve perdita di coscienza (cir­ca dai 5 ai 20 secondi) durante la quale il bambino resta immobile con lo sguardo va­go, e si dimostra incapace di rispondere agli stimoli esterni. Non c’è caduta. Oltre alle « as­senze » tipiche del Piccolo Male si possono avere forme atipiche con movimenti irregola­ri degli arti, flessione o estensione della testa, modificazione del colorito, della respirazione e a volte perdita di urina. Le « assenze » con» paiono tra i 3 e i 12 anni, ma, soprattutto verso i 6-7 anni, all’inizio del periodo scolare. La loro frequenza è molto elevata, quasi tutti i giorni e molte volte al giorno. E questo il ca­so in cui, soprattutto nel passato, il bambino veniva considerato dall’insegnante (a causa della sua disinformazione) come imbambola­to, disattento, distratto o strano e tale da es­sere, talvolta, oggetto di derisione da parte dei compagni e di rimprovero da parte di do­centi e genitori.

Le « assenze » possono essere isolate o as­sociate a crisi di tipo Grande Male. Le crisi del Grande Male sono le crisi epiletti­che più conosciute, ma non le pio frequenti nell’infanzia e nella fanciullezza. Sono quelle in cui il soggetto perde conoscenza, cade a terra, si irrigidisce, non respira, presenta scos­se ritmiche più o meno violente, generalizza­te in tutto il corpo, per 20 0 30 secondi. Presenta colorito bluastro a causa dell’arre­sto del respiro, bava alla bocca, denti serrati ed in alcuni casi con conseguente morsica­tura della lingua. Successivamente le scosse cessano, i muscoli si rilassano, la respirazio­ne riprende con un rantolo (respiro stertoroso), il colore del viso si normalizza. E in questo momento che vi può essere perdita di urina o di feci. Il soggetto riprende progressivamen-te conoscenza e potrà essere, inizialmente, confuso e disorientato.

Lo scatenarsi improvviso e « spettacolare » della crisi del Grande Male, durante l’orario scolastico, quando non trova un ambiente pronto e dunque preparato a gestire il pro­blema, può creare un clima di tensione, di ri­fiuto, di pietismo e/o di curiosità, all’interno del gruppo classe (insegnanti-allievi), con conse­guente disagio ed emarginazione da parte dell’interessato.

Pertanto è importante che l’insegnante sia sufficientemente informato sulla patologia in esa­me (diagnosi, forme in cui la patologia si manifesta, terapia farmacologica, prognosi, ecc.), sulle eventuali ripercussioni nell’attività didattica ed in particolare sappia prestare soc­corso in caso di crisi, attraverso opportuni accorgimenti, quali:

  • mantenere la calma, rassicurare gli altri alunni presenti, invitandoli a non lasciarsi
  • impressionare da quanto sta accadendo;
  • coricare il bambino in un lettino, o su un
  • tappeto, oppure semplicemente per terra;
  • non lasciare il soggetto sdraiato sul dor­so, bensì porto su di un fianco per facilita­re il deflusso della saliva che potrebbe ostacolare la respirazione;
  • pulire la bocca dalla saliva;
  • aprire le vesti strette, specialmente intor­no al collo;
  • allontanare oggetti contundenti;
  • evitare di mettergli in bocca qualsiasi tipo di oggetto;
  • lasciare che le scosse convulsive avven­gano liberamente senza bloccare gli arti per evitare lesioni;
  • aspettare che la crisi si risolva spontaneamente;
  • chiamare un medico nei casi più gravi.

Non tutte le crisi si verificano improvvisamen­te, infatti alcune sono precedute da segni premonitori (cefalea, cambiamenti d’umore, di­sturbi nella percezione, ecc.). Quando esiste un rapporto positivo d’interazione tra inse­gnante e bambino quest’ultimo può (nei casi in cui si renda conto dell’arrivo delle crisi) av­visare, spontaneamente e per tempo, l’inse­gnante; ciò assicurerà un miglior controllo della situazione.

Oltre a quanto accennato l’intervento dell’in­segnante può essere ancor più completo me­diante la sua disponibilità nell’eventuale som­ministrazione di farmaci in orario scolastico e/o nella registrazione sistematica, per esem­pio in un diario, delle modalità delle crisi (ini­zio, tempo di durata, frequenza, effetti psico­logici, ecc.). Così che i dati rilevati, di volta in volta, possano risultare utili anche per la formulazione diagnostica dello specialista. Ed è proprio a quest’ultimo che l’insegnante do­vrebbe formulare domande appropriate ed essere in grado di argomentare le risposte in chiave pedagogica; solo così il dialogo con l’esperto risulta costruttivo e ricco di stimoli. Se per esempio l’epilettologo informa l’inse­gnante che quella particolare forma di epiles­sia, dopo la crisi determina un tempo pro­lungato di riassestamento neuropsicologico, l’insegnante dovrà, in base a tale dato, indi­viduare le possibili soluzioni educativo-didattiche. Per il docente, l’incontro con l’esperto dovrebbe rappresentare un momento prezio­so, da valorizzare al massimo al fine di per­venire all’elaborazione di un razionale piano di intervento. Inoltre, egli, soprattutto a livello di scuola materna ed elementare, può realiz­zare forme di prevenzione e di intervento pre­coce attraverso un’attenta analisi di eventuali disturbi.

5 Osservazioni conclusive

A conclusione di queste pagine, possiamo dire che il soggetto epilettico va accettato, rispettato, incoraggiato aiutato e mai trattato co­me un malato mentale o un diverso, nel sen­so negativo del termine. Anzi, a tale riguardo nei Nuovi Programmi didattici per la scuola primaria (D.P.R. 12.02.1985, n. 104), alla fi­ne del capitolo intitolato « Diversità e ugua­glianza », si legge: « È dovere della scuo­la elementare evitare, per quanto possibile, che le ‘diversità’ si trasformino in difficoltà di apprendimento ed in problemi di compor­tamento, […] ». Parallelamente anche gli orientamenti per la scuola materna statale sot­tolineano il fatto di « […] vivere la diversità co­me una dimensione esistenziale e non come una caratteristica emarginante» (D.M. 3.6.1991, Cap. 11, punto 5, « Diversità e inte­grazione »).

Dunque la diversità deve essere fonte di ar­ricchimento, di confronto, di riflessione, di crescita per tutti, in modo tale da superare quei pregiudizi che di fatto limitano un auten­tico dialogo umano e che finiscono per ge­nerare e consolidare forme d’emarginazione sociale.

Da Rivista L’insegnante specializzato, 1/94

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