LUCIA PETRANI
[/pt_text]Premessa
Il lavoro presentato in queste pagine si propone di analizzare le forme di pregiudizio sociale che ancora permangono nei confronti dell’epilessia e che appaiono tutt’ora fortemente radicate nella nostra cultura, nonostante i progressi scientifici conseguiti in ordine alla sua eziologia, manifestazione e trattamento.
1 Alcune definizioni e frequenza della malattia
Epilessia è una parola che deriva dal greco epilépsia, dal verbo epilambànein «attaccare (lambànein) sopra (epi)», che significa essere colto di sorpresa, essere preso alla sprovvista.
Alcune definizioni di questa sindrome clinica tratte dalla letteratura più recente aiutano a delinearne gli aspetti caratterizzanti.
L’epilessia è una malattia del cervello caratterizzata dalla comparsa parossistica di fenomeni molto vari (contrattura, scosse cloniche, disturbi della coscienza, disturbi sensitivi, sen-soriali, disturbi psichici).
Il quadro clinico si instaura dunque bruscamente ed ha una durata breve. La definizione neurofisiologica di H. Jackson è un valido contributo: « sopraggiungere episodico di una scarica brusca, eccessiva e rapida a carico di una popolazione più o meno estesa di neuroni che costituiscono la sostanza grigia dell’encefalo ». (Augustin P., Neurologia, Milano, Ed. Masson, 1992, p. 66).
L’epilessia è una malattia del sistema nervoso dovuta ad una improvvisa iperattività di una o più zone del cervello che perdono mo-mentaneamente il proprio normale funzionamento. (Associazione Toscana per la lotta contro l’epilessia, Oggi ha l’epilessia domani sarà un uomo sano, Servizio editoriale della Giunta regionale della Toscana, Tipografia « Il Sedicesimo », Firenze, s.d.).
Si definisce epilessia una particolare situazione caratterizzata dal ripetersi nel tempo di crisi epilettiche: non va pertanto ritenuto affetto da epilessia chi abbia presentato una sola crisi. Va comunque subito sottolineato che non è corretto parlare di epilessia, bensì di epilessie; ciò perché in realtà le crisi sono manifestazioni comuni a situazioni varie (tipi diversi di epilessia), estremamente diverse tra loro dal punto di vista dell’evoluzione (che può essere pio o meno benigna).
[…] La scarica eccessiva può restare confinata ad un gruppo di cellule del cervello [crisi focale o parziale], oppure interessare all’inizio solo un gruppo di cellule e successivamente diffondersi all’insieme delle altre [crisi parziale con generalizzazione secondarie]. In altri casi, infine, la scarica può interessare fin dall’inizio e nello stesso tempo tutte le cellule del cervello [crisi generalizzata]. (Bianchi A. et Alt,, Contro l’epilessia, a cura della Lega Italiana contro l’epilessia, giugno 1990).
« Piccolo e Grande Male »
Il Grande Male ed il Piccolo Male sono due tipi di epilessia generalizzata. La crisi tonico-clonica del Grande Male ha un inizio brutale,, evidenziato, da un grido, da una caduta e da una perdita di coscienza totale ed immediata. Essa dura dai cinque ai dieci minuti.
Il Piccolo Male o le « assenze », tipiche dell’infanzia, consistono in una breve sospensione della coscienza della durata di qualche secondo, senza perdita di tono muscolare né caduta, durante la quale il bambino si immobilizza, sembra sognare, interrompe la sua attività, non risponde più alle domande. Egli riprende molto in fretta coscienza e continua la sua attività come se non vi fosse stato nulla. Non ricorda niente delle crisi ma può identificare a posteriori la sua assenza attraverso rimproveri dell’ambiente o il distacco constatato durante una conversazione.
Nel corso dei secoli, [‘epilessia è presente in tutti i Paesi, in tutte le razze e in tutte le culture. Ippocrate diceva: « Quando si sono superati i venti anni, questo male, se non è congenito fin dall’infanzia, non colpisce più che pochi
o nessuno […] ». (Vegetti M. Opere di Ippocrate, Torino, UTET, 1965, pp. 283-284). Infatti, l’epilessia colpisce in misura elevata l’età infantile e diminuisce considerevolmente con l’età adulta. E ciò è confermato da alcune ricerche epidemiologiche secondo cui il 50% delle epilessie comincia prima dei 10 anni, il 30% tra i 10 e 29 anni, mentre la loro incidenza sarebbe da ,5 a 10 casi ogni 1000 abitanti. (Dravet Ch., Jallon P., Il bambino con epilessia, Roma, Ed. Boria, 1988, pp. 14-15).
2 Cenni storici sull’epilessia
2.1. Il « morbo sacro »
L’epilessia è, forse, una delle prime malattie presenti fin dagli albori dell’umanità. Già nel codice di Hammurabi (2000 a.C.) è possibile rinvenire norme relative alle persone epilettiche.
I Greci la chiamavano « morbo sacro » in quanto credevano che la causa e la cura di essa fossero note solo agli dei. Consideravano pertanto l’epilessia come un evento magico-religioso, sovrannaturale, una sorta di possessione divina o demoniaca a carico di un essere umano. Tali superstizioni vennero peraltro contestate da Ippocrate (IV sec. a.C.). In un suo saggio, intitolato “La malattia sacra” (che rappresenta la prima opera dedicata all’epilessia) si legge:
Il male cosiddetto sacro […] ha struttura naturale e cause razionali […].
In verità io ritengo che i primi a conferire un carattere sacro a questa malattia siano stati uomini quali ancora oggi ve ne sono, maghi e purificatori e ciarlatani e impostori, tutti che pretendono d’essere estremamente devoti e di veder più lontano. Costoro […] affinché la propria totale ignoranza non fosse manifesta, asserirono che questo male era sacro […] distribuivano purificazioni e incantesimi, ingiungevano di astenersi dai bagni e da molti cibi che non opportuno che i malati mangino […].
Ma di fatto responsabile di questo male è il cervello […]. Quanti sono consueti al male, prevedono l’imminenza dell’attacco, e fuggono via dagli uomini, a casa se la loro casa è vicina, oppure nel luogo più deserto, dove pochissimi possano vederli cadere, e subito celano il capo: e ciò fanno per vergogna del male, e non come credono molti, per paura dei divino.
I bambini invece le prime volte cadono laddove capita, […] giacché non conoscono ancora la vergogna. (Vegetti M., op. cit., pp. 271-272-273-277-284 e 285).
La lunga citazione consente di evidenziare come l’autore imposti lo studio dell’epilessia secondo canoni che oggi potremmo definire propri della conoscenza scientifica, considerando il cervello l’organo centrale del sistema nervoso e rifiutando superstizioni corredate anche al senso di vergogna di chi ne era affetto e all’ignoranza.
Dunque accanto alla medicina magico-religiosa, praticata dai sacerdoti nei tempri di Asclepio (dio della medicina), emerse, molto gradualmente, anche la medicina « laica » basata su elementi razionali, forniti dall’esperienza.
2.2. Un segno di cattivo presagio
I Romani oltre che « morbus sacer » definivano l’epilessia anche « morbus comitialis ». Essi consideravano l’attacco epilettico come un cattivo presagio, un segno attraverso cui gli dei esprimevano la loro irata disapprovazione per qualche fatto o comportamento umano, a tal punto che se un partecipante ai « comitia », presentava convulsioni, questi venivano interrotti; di qui la dizione « sindrome comiziale », ancor oggi in uso, sinonimo di epilessia.
Anche Giulio Cesare soffri di epilessia, così Shakespeare ce ne riferisce:
Cassio: Di grazia, te ne prego: Cesare è dunque proprio svenute?
Casca: È caduto per terra in mezzo al foro, gli è venuta la bava alla bocca, e per un tratto, non ha potuto nemmeno articolar parola.
Bruto: È molto probabile, infatti: ha il mal caduco. (Shakespeare W., Giulio Cesare, Milano, ed. Rizzoli, 5° Ed. BUR, 1990, p. 49).
2.3. L’epilessia come segno della presenza del maligno
Un’ulteriore testimonianza del carattere sovrannaturale dell’epilessia si riscontra anche nel Vangelo, nel passo dedicato a « L’epilettico indemoniato » (S. Marco, 9). In esso si legge: « Maestro, 11o portato a te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigno i denti ed egli si irrigidisce ». Allora Gesù fece guarire il ragazzo eliminando lo spirito e sordo e dicendo, poi, ai suoi discepoli che solo con la preghiera è possibile scacciare « questa specie di demoni », (cfr. S. Matteo, 17).
È proprio alla crisi di Grande Male, con le sue manifestazioni spettacolari, che sono stati at-tribuiti caratteri sovrannaturali. Secondo l’ottica dei primi cristiani tali manifestazioni venivano giustificate dalla credenza della possessione demoniaca. Questa era rapportata al carattere morale (passioni, violenze, peccati, ecc.) di colui che ne era colpito. I Santi potevano eliminare il male ma anche provocarlo se venivano loro recate offese. Le figure taumaturgiche di Santi patroni dell’epilessia, in genere si riferiscono a soggetti che avevano subito il martirio della decapitazione, e da ciò ebbe origine il loro patrocinio sui mali localizzati nella testa. Ecco perché l’epilessia viene gestita, per molto tempo, quasi esclusivamente dal clero.
In campo strettamente terapeutico viene fatto ricorso a formule e riti suggestivi, a sostanze nocive ed inefficaci, a particolari digiuni, ecc.. Si consigliava, per esempio, di bere sangue umano, di fare uso di purghe e salassi a scopo preventivo, ecc..
2.4. Individui oggetto del disprezzo sociale
Durante il Medio Evo l’aspetto sovrannaturale attribuito all’epilessia viene ancor più accentuato ribadendo così la sua origine demoniaca. Un esempio di ciò ci viene offerto dallo stesso Dante, nel canto XXlV dell’Inferno, ove paragona la pena alla quale è stato condannato Vanni Fucci ad una crisi epilettica:
E qual è quel che cade, e non sa come, per forza di demon ch’a terra il tira, o d’altra oppliazion che lega l’orno, quando si leva, che intorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch’elli ha sofferta, e guardando sospira: rai era ‘1 peccator levato poscia. (Inferno, vv. 112-118).
Siffatta concezione portò ad addossare sull’epilettico il massimo del disprezzo sociale, fino a giungere alla sua eliminazione fisica. In nome della fede furono infatti mandati al rogo migliaia di epilettici considerati come indemoniati. In Scozia, ad esempio, dove la malattia epilettica era considerata ereditaria, si usava castrare il maschio e rinchiudere la donna; se poi, nonostante tale limiti, una donna risultava in stato gravidico, allora essa veniva sepolta viva con la prole in seno.
L’emarginazione sociale del soggetto « posseduto » ebbe ulteriormente modo di consolidarsi con la diffusione del pregiudizio della contaminazione, secondo il quale anche solo col respiro l’epilettico poteva contagiare le persone che gli erano accanto.
2.5. L’età moderna e i contributi scientifici più recenti
Nella seconda metà del ‘500, Paracelso, medico-filosofo-umanista, scrisse due trattati sull’epilessia, giudicandola una malattia astrale per eccellenza. Ma nonostante lo slancio culturale e scientifico del periodo rinascimentale l’epilessia rimase avvolta nella tradizione demonologica.
Una svolta importante nei confronti della storia dell’epilessia, si riscontra con il pensiero illuminista; quando il medico svizzero Tissot cominciò a studiare le cause della malattia dividendole in predisponenti e determinanti. Si trattò di un orientamento nuovo e decisivo, mediante il quale le cause morali (passioni, tormenti, violenza, ecc.) vennero distinte da quelle fisiche (traumi cranici, parti distocici, sifilide, ecc.).
La vera e propria ricerca scientifica sull’epilessia inizia con il neurologo inglese Hughlings Jackson (1831-1911), che per primo individuò il meccanismo interno della scarica elettrica nel cervello ed elaborò una teoria tutt’ora attuale. Nonostante le acquisizioni maturate attraverso tali ricerche i pregiudizi in merito all’epilessia continuarono ad essere tanto tenaci quanto diffusi. Si racconta, ad esempio, che Gustave Flaubert (1821-1880) da bambino era affetto da Piccolo Male e che suo padre, nonostante svolgesse la professione di medico, lo rimproverasse considerandolo distratto e disinteressato allo studio.
Cesare Lombroso, (1835-1909), psichiatra, antropologo e criminologo, nel suo libro L’uomo delinquente, arrivò ad attribuire agli epilettici condotte delinquenziali, tendenze caratteriali ed omicide. Nel testo Cesare Lombroso ovvero il principio dell’irresponsabilità di Pier Luigi Baima Ballone, infatti, si legge:
[…] Lombroso scopre ben presto altre categorie di delinquenti, di occasione, di abitudine, di passione, cui si aggiungono gli epilettici e i pazzi.
L’intelligenza è abolita nelle demenze, nell’epilessia […]. Delinea [Lombroso] innanzitutto la figura del pazzo morale e del delinquente epilettico tra cui individua un notevole parallelismo.
[…] l’epilettico e il mattoide hanno una conformazione tale che li determina a condotte antisociali. Il comportamento criminale ne è la conseguenza diretta. (Baima Ballome P., Cesare Lombroso ovvero il principio dell’irresponsabilità, Torino, Ed. SEI, 1992, pp. 107-112-137-166).
Le concezioni di Lombroso contribuirono così al persistere di una emarginazione sociale del soggetto in questione, generalmente curato e ricoverato in manicomi o in cliniche psichia-triche e dunque identificato come malato mentale. (Si tenga presente che all’epoca mancava una netta differenziazione tra neurologia e psichiatria).
Anche Freud si interessò di epilessia. Egli stinse nel suo saggio « Dostoevskii e il parricidio» (1927), due tipi di epilessia, una « organica » e una « affettiva ». La prima riguardava il cervello, la seconda la psiche. Freud ipotizzò così che la natura della malattia epilettica di cui soffriva il famoso scrittore russo appartenesse a quest’ultima categoria. Nonostante gli scarsi dati anamnestici sulla cosidetta « istereoepilessia » di Dostoevskij, egli ritenne di aver individuato il momento scatenante della malattia di quest’uomo: l’assassinio del padre da parte della sua servitù. Secondo Freud, il rapporto conflittuale che Dostoevskij aveva con il padre, particolarmente duro e tirannico, e la sua conseguente intenzione parricida lo indussero ad una reazione autopunitiva mediata dagli attacchi. A testimonianza della sua tesi Freud scrive:
Se rispondesse al vero che Dostoevskij in Siberia dove era stato condannato ai lavori forzati a causa di motivi politici] non ebbe a patire di attacchi, ciò non farebbe che confermare che i suoi attacchi epilettici erano la sua punizione: quando era punito in altri modi non ne aveva più bisogno. (Freud S., Shakespeare, Ibsen e Dostoevskij, Torino, Ed. Boringhieri, 1991, p. 77).
Solo ai nostri giorni, l’ipotesi ippocratica che si dovessero cercare nel cervello le vere cause dell’epilessia, ha trovato conferma.
Oggi mediante l’uso dell’elettroencefalografia (E.E.G.) è possibile registrare l’attività bioelettrica cerebrale e dunque diagnosticare, anche, le diverse forme di epilessia. Un ulteriore ausilio strumentale ci è offerto dalla tomografia assiale computerizzata (T.A.C.) e dalla risonanza magnetica nucleare (R.M.N.). Entrambe queste metodiche, attraverso l’emissione di raggi o di campi magnetici che vengono variamente assorbiti dai tessuti interessati, e tramite un computer che traduce in immagini alcuni parametri vitali è possibile esaminare il cervello in strati successivi, ed evidenziare l’eventuale presenza di atrofie, cicatrici, malformazioni od altre neoformazioni che possono essere all’origine della malattia in questione.
3 Il Pregiudizio sociale
Per le sue radici storiche, l’epilessia — nonostante i notevoli progressi scientifici — è ancora oggi accompagnata da pregiudizi e da stereotipi, cioè da valutazioni rigide, semplificate e spesso infondate da parte dell’individuo o dei gruppi sociali. Lo stesso grande epilettologo Lennox definì il pregiudizio nei confronti della patologia che stiamo esaminando nei seguenti termini: « Tra tutte le malattie esistenti l’epilessia è senz’altro quella nell’ambito della quale i pregiudizi sociali sono più gravi della stessa affezione ».
Nel nostro contesto socio-culturale la « testa » ha un valore simbolico fondamentale, in quanto rappresenta la sede della normalità intel-lettiva ed etico-morale. Pertanto se l’epilessia è localizzabile nel cervello, quest’ultimo viene considerato dalla cultura dominante permanentemente e globalmente alterato in modo irreparabile in tutte le sue componenti. Tale preconcetto, tanto evidente quanto devastante, ha generato paure ingiustificate relative dia inguaribilità, alla pericolosità socio-comportamentale e alle compromissioni psicosessuali. Questi fenomeni, derivanti « dall’immaginario sociale », sono ampiamente diffusi nella nostra struttura culturale e mettono in luce anche la scarsa differenziazione tra epilessia e malattia mentale. A tale riguardo significativi sono i dati emersi da una recente indagine realizzata dalla « Lega Italiana contro l’epilessia ». La ricerca ha evidenziato che:
- il 27% degli italiani non sa che cosa sia l’epilessia;
- 1’8% considera l’epilessia una devianza mentale;
- il 31% considera l’epilessia una malattia cronica dalla quale non è possibile guarire;
- l’11% è contrario al fatto che il proprio figlio frequenti soggetti che ne sono colpiti.
Dai dati emerge un quadro dal quale si rileva non solo una ridotta conoscenza del problema, ma anche la presenza di diffusi atteggiamenti di emarginazione sociale nei confronti degli epilettici che tendono a generalizzare il giudizio negativo su tutti i soggetti colpiti e a compromettere il loro futuro d’integrazione. Tale atteggiamento è ancor più dannoso se si pensa che anche il mondo dei bambini e dei giovani ne è colpito.
3.1. Alcune testimonianze
A testimonianza di quanto finora detto, ritengo opportuno riportare alcuni stralci di una lettera inviata da una giovane, affetta dalla patologia in questione, alla Lega Francese contro l’epilessia, la ragazza scrive:
… ho incontrato delle difficoltà non solo nell’ambiente scolastico ma anche in quello di lavoro dove avevano scoperto la mia epilessia. Questa malattia presenta tutt’ora un risvolto imbarazzante e l’ignoranza e i pregiudizi della gente sono la cosa che più fa male. Ma io sono una di quelle che vivono senza grossi problemi, grazie ai risultati di una buona terapia che ha cancellato le mie crisi. Ciò che non sopporto è la « discriminazione » eserci-tata contro l’epilessia.
Le mie prime difficoltà le ho incontrate a scuola; fin dal penultimo anno di liceo ero stata giudicata incapace di superare gli esami di maturità.
Preciso che ottenni il diploma di maturità e mi laureai e specializzai in seguito in lingue straniere applicate ….
Ho avuto lo stesso tipo di problemi quando ho lavorato in un asilo; sorvolo sui metodi usati per convincermi a lasciare quel posto…
Considero tutti questi atteggiamenti emarginanti del tutto scioccanti, peggiorati inoltre dalla nostra impossibilità a poterne discutere, visto che non ce n’è data alcuna possibilità […]. Tuttavia conduco una vita normale, ho un figlio, ho potuto studiare… Voleva solo of-frirvi la mia testimonianza e dirvi che trovo inammissibile la nostra emarginazione… (Draver Ch., Jallon P., ap. cit., pp. 174-175).
Un’altra testimonianza:
Aveva 11 anni, frequentavo una scuola religiosa e avevo avuto la mia prima crisi in classe, otto giorni prima; il medico che mi aveva visitata aveva scritto in seguito una lettera all’infermiera della scuola, spiegandole ciò che avrebbe dovuto fare in caso di una nuova crisi. Ma il giorno della mia prima crisi si disse all’intera classe che io ero posseduta da un demonio, che bisognava pregare Dio per il bene della mia anima ed era meglio non starmi vicino. Da quel momento le mie col» paghe mi lasciarono sola, carne se avessero paura; solo una fece eccezione, Barbara; sua madre infatti sapeva, cosa fosse l’epilessia. Quando sopraggiunse una nuova crisi il mio professore prese una bottiglia di acqua benedetta e me ne verso un po’ sulla fronte chiedendo alle mie compagne di recitare il rosario.
In seguito, all’età di 18 anni, ottenni il diploma di segretaria d’azienda e riuscii a trovare un impiego. Dopo una settimana di lavoro mi chiamò il capo ufficio per complimentarsi con me. Alla visita medica però dichiarai di essere epilettica e il 15omeriggio stesso il capo ufficio mi chiamò nuovamente per annunciar-mi, con tono imbarazzato, che problemi di bilancio gli impedivano di tenermi e dovevo cercarmi di conseguenza un altro posto. Mi confesso poi che nessuna grande società avrebbe accettato di assumere un impiegata epilettica. (Dravet Ch., Jatlon P., ap. cit., pp. 175-176).
Il brano è tratto da un libro scritto da Joan Forde, una ragazza epilettica che ha raccontato la sua storia personale. Nonostante il continuo manifestarsi delle crisi Joan Ferale si è laureata, ha trovato un lavoro e si è formata una famiglia.
A conclusione di questo segmento del discorso dedicato al pregiudizio sociale può essere opportuno citare uno stralcio di una relazione stesa, nell’anno 1987, da uno specialista in neurochirurgia, in riferimento ad una bambina affetta da epilessia post-traumatica, da me seguita in qualità di insegnante di sostegno. In essa si legge:
L’epilessia, vista soltanto come espressione clinica di una disfunzione neurofisiopatologica […], sembra a mio parere alquanto riduttiva, perché non tiene conto dei determinismi psicologici che condizionano l’espressione stessa della malattia.
[…] Il rifiuto dell’epilettico da parte della società (considerato un vero e proprio archetipo medico) trae senz’altro origine dall’inconscio collettivo; nonostante tutti i progressi attuali è ancora presente la concezione del male epilettico come male « demoniaco e terrifico » ed il paziente è ancora considerato come «afferrato o posseduto».
- Il soggetto epilettico e la scuola
4.1. Pregiudizi da rimuovere
Gli stereotipi culturali nei confronti dell’epilessia, di cui si è parlato precedentemente, guardano, in modo più o meno velato, anche il mondo della scuola, la quale non sempre è in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni specifici dell’alunno epilettico.
In riferimento al rapporto soggetto epilettico – insegnante, in genere, si riscontra da parte di quest’ultimo una scarsa od erronea conoscenza del problema, unitamente all’esistenza di pregiudizi nei riguardi dell’alunno che presenta tale patologia. Ad esempio, uno dei pregiudizi più ricorrenti riguarda il binomio epilessia-intelligenza; secondo luoghi comuni il soggetto epilettico è anche un insufficiente mentale. In realtà, l’epilessia non comporta necessariamente disturbi intellettivi od anche comportamentali. Si può del resto soffrire di epilessia essendo individui dei tutto normali. In questa sede l’analisi che ci proponiamo di condurre esclude i casi in cui oltre a tale malattia è presente anche l’insufficiente mentale. Del resto « La compromissione grave dell’intelligenza è riscontrabile in circa il 7% dei casi con epilessia nell’età evolutiva […] », (Benedetti P., et Coli., Le epilessie dell’età evolutiva, Roma, Ed. Il Pensiero Scientifico, 1980, p. 97), mentre « […] 1’80-85% degli epilettici è normalmente scolarizzabile », (Bollea G., « L’epilettico e la classe », Boll. Lega It. contro l’epilessia, 1974, 7/8:21-28, p. 23). Secondo molti autori la presenza di determinate alterazioni della personalità, in soggetti epilettici, è pio dovuta alla terapia farmacologica e lo agli stimoli esterni provenienti dall’entourage d’appartenenza, che alla malattia in se stessa. Tali disturbi possono essere riconducibili alle seguenti tre sindromi:
- a) Sindrome eretistico-ipercinetica, la più frequente al di sotto dei dieci anni e caratterizzata da labilità d’umore, da disturbi dell’attenzione e da instabilità psicomotoria;
- b) Sindrome bradipsichica, più evidente dopo i 13 anni, caratterizzata da mancanza d’iniziativa, da un rallentamento intelletti-vo e motorio, da incapacità a staccarsi dai concreto, da un linguaggio complicato e confuso, che si ripete; la perseverazione, la stereotipia e la viscosità risultano gli elementi tipici di questa sindrome;
- c) Sindrome esplosiva, più frequente nell’adolescenza caratterizzata da disforia, scarsissima sopportazione alle frustrazioni, collere violente ed improvvise con scarse motivazioni.
Un’altra falsa credenza è quella di ritenere che lo sforzo intellettivo possa costituire fattore scatenante delle crisi, oppure che certi giochi o attività sportive possano alterare lo stato di salute del soggetto, predisponendo-lo ad eventuali attacchi. Al contrario, eccettuati quei casi in cui non è possibile controllare le crisi, i soggetti epilettici possono praticare quasi tutti gli sport, sia pure con qualche precauzione, ad esempio evitando di nuotare da soli. In sostanza è necessario, con i giovani epilettici ben controllati, evitare qualsiasi differenziazione rispetto ai loro compagni, favorendo, con opportuni accorgimenti, le loro esperienze conoscitive a livello cognitivo, senso-percettivo, spazio-temporale, linguistico-espressivo, ecc.. La loro vita dovrebbe svolgersi, quindi, normalmente, riconoscendo che le loro possibilità di andare incontro a dei rischi sono le stesse di quelle incontrate da ogni altro loro coetaneo.
4.2. Modalità comportamentali all’interno della scuola
La presenza di un epilettico nella classe può determinare, da parte degli insegnanti, una pluralità di modalità comportamentali, nel senso che si possono verificare forme di:
- iperprotezionismo o di permissività;
- rifiuto esplicito e totale;
- pietismo;
La reazione dell’alunno, di fronte a tali atteggiamenti, può essere essenzialmente di due tipi: o chiusura (passivizzazione) con conseguente inibizione delle capacità d’iniziativa personale e d’autonomia, o comparsa di forme d’instabilità emotiva e d’aggressività. Entrambe le condotte, appena accennate, sono connotate da un’ansia di fondo e da uno stato di disagio interiore. In sostanza gli atteggiamenti dell’insegnante, sopra richiamati, finiscono con il condizionare negativamente lo sviluppo della personalità del soggetto, facendolo sentire insicuro, non autosufficiente ed incapace di corrispondere alle aspettative degli altri. Di conseguenza, tali fattori interferiscono in forma nociva non solo sui processi di crescita psicosociale, ma anche sul rendimento scolastico stesso. Infatti, se il bambino epilettico vive la scuola come una struttura emarginante, l’insuccesso scolastico è pressoché scontato. Tale condizione è resa ancor più grave in quelle situazioni in cui si viene a stabilire una sorta di alleanza inconsapevole, tra genitori ed insegnanti, che finisce per consolidare quello stato di « diversità » del soggetto (figlio o alunno), al quale viene ad essere negata ogni possibilità di evoluzione, in senso positivo, della sua condizione. A conferma di ciò è stato osservato che «A prescindere dai casi che presentano insufficienza mentale, in circa il 50% dei bambini con epilessia il rendimento scolastico si dimostra insufficiente», (Benedetti P. et Coli., op. cit., p. 99). E su questa valutazione pesano appunto i pregiudizi sociali, non tanto i fattori oggettivi.
Un altro aspetto da tener presente è il rapporto tra l’alunno epilettico e i compagni di classe. Quest’ultimi possono vivere la presenza del compagno secondo atteggiamenti diversi: d’indifferenza, di superiorità, di fastidio, d’intolleranza, d’imbarazzo, di paura, ecc.. Ciascuna di queste dinamiche relazionali è condizionata e accompagnata da svariati pregiudizi, dal modo di rapportarsi da parte dei rispettivi genitori, degli insegnanti, dei medici, ecc., nei confronti del soggetto epilettico e soprattutto dalla considerazione/attenzione che l’insegnante dimostra nei riguardi dell’alunno in questione. Pertanto in questi casi è importante che i docenti adottino un comportamento equilibrato che faciliti l’integrazione dell’alunno all’interno della classe e forniscano informazioni precise, chiare e comprensibili agli alunni, per aiutarli a comprendere le manifestazioni dell’epilessia senza disagio. Per fare ciò l’insegnante dovrebbe sostituire ai propri pregiudizi un comportamento che sia pedagogicamente legittimato.
Infine è bene ricordare che i pregiudizi esaminati non riguardano esclusivamente gli insegnanti, ma talvolta sono stati riscontrati anche tra i medici stessi.
4.3 Indicazioni per una migliore integrazione scolastica
A questo punto, alcune rapide indicazioni, di ordine pedagogico sembrano doverose. È imprescindibile che l’insegnante:
- conosca l’anamnesi socio-familiare e personale, dell’alunno, che includa in sé anche la storia evolutiva della malattia;
- imposti un piano di lavoro aderente alla situazione personale del soggetto, mantenendo sempre viva la sua attenzione, evitando di proporgli attività non motivanti, passivizzanti, avulse dai suoi reali interessi oppure troppo impegnative rispetto alle sue reali capacità cognitive;
- conduca in modo graduale e flessibile ogni attività intenzionalmente prevista;
- interagisca positivamente non solo con la famiglia, ma anche con gli operatori dell’équipe medico-psico-pedagogica, secondo una logica di corresponsabilità, che affronti in modo globale la situazione dell’alunno.
Per la realizzazione di tutto ciò è importante anche il ruolo svolto dal dirigente scolastico — direttore didattico e preside — come punto di riferimento e di supporto per l’esperienza scolastica di questi soggetti. E auspicabile che egli promuova iniziative, per eliminare pregiudizi e difficoltà, avvalendosi di esperti, organizzi gruppi di lavoro tra i docenti, fornisca suggerimenti operativi, coordini incontri sistematici tra famiglia, operatori scolastici, socio-sanitari, ecc..
4.4. « Piccolo e Grande Male »
La letteratura scientifica, come abbiamo visto, distingue nel bambino forme epilettiche che si esprimono attraverso disturbi semplici della vigilanza (tipo « assenze ») da quelle che comportano crisi convulsive (tipo Grande Male). Il Piccolo Male o le « assenze » (stato di non risposta agli stimoli), si osservano soprattutto nell’infanzia e sono rappresentate essenzialmente da una breve perdita di coscienza (circa dai 5 ai 20 secondi) durante la quale il bambino resta immobile con lo sguardo vago, e si dimostra incapace di rispondere agli stimoli esterni. Non c’è caduta. Oltre alle « assenze » tipiche del Piccolo Male si possono avere forme atipiche con movimenti irregolari degli arti, flessione o estensione della testa, modificazione del colorito, della respirazione e a volte perdita di urina. Le « assenze » con» paiono tra i 3 e i 12 anni, ma, soprattutto verso i 6-7 anni, all’inizio del periodo scolare. La loro frequenza è molto elevata, quasi tutti i giorni e molte volte al giorno. E questo il caso in cui, soprattutto nel passato, il bambino veniva considerato dall’insegnante (a causa della sua disinformazione) come imbambolato, disattento, distratto o strano e tale da essere, talvolta, oggetto di derisione da parte dei compagni e di rimprovero da parte di docenti e genitori.
Le « assenze » possono essere isolate o associate a crisi di tipo Grande Male. Le crisi del Grande Male sono le crisi epilettiche più conosciute, ma non le pio frequenti nell’infanzia e nella fanciullezza. Sono quelle in cui il soggetto perde conoscenza, cade a terra, si irrigidisce, non respira, presenta scosse ritmiche più o meno violente, generalizzate in tutto il corpo, per 20 0 30 secondi. Presenta colorito bluastro a causa dell’arresto del respiro, bava alla bocca, denti serrati ed in alcuni casi con conseguente morsicatura della lingua. Successivamente le scosse cessano, i muscoli si rilassano, la respirazione riprende con un rantolo (respiro stertoroso), il colore del viso si normalizza. E in questo momento che vi può essere perdita di urina o di feci. Il soggetto riprende progressivamen-te conoscenza e potrà essere, inizialmente, confuso e disorientato.
Lo scatenarsi improvviso e « spettacolare » della crisi del Grande Male, durante l’orario scolastico, quando non trova un ambiente pronto e dunque preparato a gestire il problema, può creare un clima di tensione, di rifiuto, di pietismo e/o di curiosità, all’interno del gruppo classe (insegnanti-allievi), con conseguente disagio ed emarginazione da parte dell’interessato.
Pertanto è importante che l’insegnante sia sufficientemente informato sulla patologia in esame (diagnosi, forme in cui la patologia si manifesta, terapia farmacologica, prognosi, ecc.), sulle eventuali ripercussioni nell’attività didattica ed in particolare sappia prestare soccorso in caso di crisi, attraverso opportuni accorgimenti, quali:
- mantenere la calma, rassicurare gli altri alunni presenti, invitandoli a non lasciarsi
- impressionare da quanto sta accadendo;
- coricare il bambino in un lettino, o su un
- tappeto, oppure semplicemente per terra;
- non lasciare il soggetto sdraiato sul dorso, bensì porto su di un fianco per facilitare il deflusso della saliva che potrebbe ostacolare la respirazione;
- pulire la bocca dalla saliva;
- aprire le vesti strette, specialmente intorno al collo;
- allontanare oggetti contundenti;
- evitare di mettergli in bocca qualsiasi tipo di oggetto;
- lasciare che le scosse convulsive avvengano liberamente senza bloccare gli arti per evitare lesioni;
- aspettare che la crisi si risolva spontaneamente;
- chiamare un medico nei casi più gravi.
Non tutte le crisi si verificano improvvisamente, infatti alcune sono precedute da segni premonitori (cefalea, cambiamenti d’umore, disturbi nella percezione, ecc.). Quando esiste un rapporto positivo d’interazione tra insegnante e bambino quest’ultimo può (nei casi in cui si renda conto dell’arrivo delle crisi) avvisare, spontaneamente e per tempo, l’insegnante; ciò assicurerà un miglior controllo della situazione.
Oltre a quanto accennato l’intervento dell’insegnante può essere ancor più completo mediante la sua disponibilità nell’eventuale somministrazione di farmaci in orario scolastico e/o nella registrazione sistematica, per esempio in un diario, delle modalità delle crisi (inizio, tempo di durata, frequenza, effetti psicologici, ecc.). Così che i dati rilevati, di volta in volta, possano risultare utili anche per la formulazione diagnostica dello specialista. Ed è proprio a quest’ultimo che l’insegnante dovrebbe formulare domande appropriate ed essere in grado di argomentare le risposte in chiave pedagogica; solo così il dialogo con l’esperto risulta costruttivo e ricco di stimoli. Se per esempio l’epilettologo informa l’insegnante che quella particolare forma di epilessia, dopo la crisi determina un tempo prolungato di riassestamento neuropsicologico, l’insegnante dovrà, in base a tale dato, individuare le possibili soluzioni educativo-didattiche. Per il docente, l’incontro con l’esperto dovrebbe rappresentare un momento prezioso, da valorizzare al massimo al fine di pervenire all’elaborazione di un razionale piano di intervento. Inoltre, egli, soprattutto a livello di scuola materna ed elementare, può realizzare forme di prevenzione e di intervento precoce attraverso un’attenta analisi di eventuali disturbi.
5 Osservazioni conclusive
A conclusione di queste pagine, possiamo dire che il soggetto epilettico va accettato, rispettato, incoraggiato aiutato e mai trattato come un malato mentale o un diverso, nel senso negativo del termine. Anzi, a tale riguardo nei Nuovi Programmi didattici per la scuola primaria (D.P.R. 12.02.1985, n. 104), alla fine del capitolo intitolato « Diversità e uguaglianza », si legge: « È dovere della scuola elementare evitare, per quanto possibile, che le ‘diversità’ si trasformino in difficoltà di apprendimento ed in problemi di comportamento, […] ». Parallelamente anche gli orientamenti per la scuola materna statale sottolineano il fatto di « […] vivere la diversità come una dimensione esistenziale e non come una caratteristica emarginante» (D.M. 3.6.1991, Cap. 11, punto 5, « Diversità e integrazione »).
Dunque la diversità deve essere fonte di arricchimento, di confronto, di riflessione, di crescita per tutti, in modo tale da superare quei pregiudizi che di fatto limitano un autentico dialogo umano e che finiscono per generare e consolidare forme d’emarginazione sociale.
Da Rivista L’insegnante specializzato, 1/94
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