GUYA INCERPI
[/pt_text]Esiste un vero e proprio mito riguardo alla “sindrome da danno cerebrale minimo”, ma è innegabile che a questa definizione, così largamente adottata, e purtroppo spesso in modo del tutto inappropriato, corrisponde un’entità, che pur se criticata sul piano della sua definizione nosografica, è da tutti comunque ammessa clinicamente.
Gli insegnanti si trovano spesso di fronte a bambini con turbe dell’attenzione, frequentemente associate ad iperattività ed alterazioni del carattere ed è naturale che gli insegnanti come d’altronde i familiari, richiedano al medico di chiarire queste situazioni, evidenziando l’esistenza di eventuali danni organici cerebrali.
In realtà in molte di queste condizioni è impossibile dimostrare la presenza di una determinata alterazione cerebrale, cioè si tratta di deficit funzionali non riconoscibili a livello organico.
Comunque ritengo che sia importante aggiornare l’insegnante riguardo alle ultime conoscenze su questa sindrome, sia per la sua relativa frequenza, sia perché può essere causa di gravi problemi psicosociali che una volta instaurati sono di difficile trattamento.
Attualmente, infatti, è possibile affrontare terapeuticamente con successo questa condizione, a patto di intervenire correttamente e precedentemente, e l’insegnante si trova, appunto, nella posizione migliore per una diagnosi precoce. È comunque da tener presente che disturbi simili a quelli che si presentano in questa situazione si possono osservare in numerose altre sindromi psichiatriche infantili, come depressione, alterazioni della condotta, psicosi, autismo, ed è quindi facile per non specialisti, fare un unico fascio attribuendo a tutti la esistenza di un ipotetico danno cerebrale e strutturare cosi un duraturo handicap psicosociale.
Per questo motivo ho ritenuto importante soffermarmi ad analizzare questa sindrome, cercando di fornire all’insegnante, che si trova
coli tanta frequenza ad affrontare bambini di questo tipo, se non delle certezze, almeno un aiuto a comprendere meglio queste situazioni. Evidente è l’importanza che può avere l’intervento dell’insegnante ai fini di individuare, correggere e prevenire questa sindrome e le sue gravi conseguenze.
La prima descrizione scientifica di questa condizione risale al 1917-18, quando, in seguito ad una epidemia di encefalite, alcune dei sopravvissuti a tale malattia avevano presentato un comportamento caratterizzato da: ipe-rattività, diminuzione dell’attenzione, distraibilità ed impulsività.
Questa condizione era stata definita “sindrome comportamentale da danno cerebrale”, e la definizione era indubbiamente corretta, in quanto questi bambini avevano senz’altro sofferto un danno cerebrale.
Purtroppo, in seguito, si arrivò erroneamente a pensare che ogni bambino, affetto da una sindrome comportamentale simile, doveva, analogamente, aver riportato un danno cerebrale.
Successivamente, però, si è dimostrato, che la maggioranza dei bambini portatori di disturbi di questo tipo, non presenta alcun segno di danno cerebrale rilevabile all’esame neurologico o all’EEG. Per cui venne coniato il termine di “sindrome da danno cerebrale minimo” (DCM), col quale si voleva sottintendere che il danno doveva esistere, ma era così minimo, che non eravamo in grado di rilevarlo con le normali metodiche.
Negli anni ‘60, negli Stati Uniti, un’equipe formatasi per lo studio di questa condizione, trasformò il significato della sigla DCM, da “danno” in “disfunzione” cerebrale minima.
Dato che, anche questo termine generava inevitabilmente confusione, in quanto non era possibile, ne evidenziare l’esistenza di tale di-s[unzione, ne tantomeno quantificarla, nella Terza Edizione dei Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM III), pubblicarlo a cura della American Psychiatric Association, la definizione di “Disturbi da deficit dell’attenzione” sostituisce la vecchia dizione di “sindrome da danno cerebrale minimo” (oltre alla grande varietà di nomi con cui è stata, inoltre etichettata in passato, quali, Reazione Ipercinetica del bambino, Sindrome Ipercinetica, Sindrome del bambino iperattivo, ecc.).
L’attuale definizione di “disturbi o sindrome da deficit dell’attenzione”, è da considerare indubbiamente la più valida, in quanto le difficoltà dell’attenzione sono in primo piano e sempre presenti nei bambini affetti da tale condizione; si viene, quindi, a porre l’accento su una evidente alterazione del comportamento, che le ricerche più recenti indicano come il problema essenziale di questi soggetti.
Per quanto riguarda poi, il problema specifico dell’iperattività, che per anni è stato considerato uno dei sintomi fondamentali di queste situazioni, le attuali indagini hanno dimostrato che molti dei bambini portatori di una “sindrome da deficit dell’attenzione” (SDA), non sono più attivi in senso quantitativo dei loro coetanei “normali”, anzi alcuni possono essere ipoattivi.
Per questo motivo sono stati distinti dagli Autori dei DSM i due sottotipi della sindrome: il Disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività, e il Disturbo da deficit dell’attenzione senza iperattività.
Comunque ciò che conta non è tanto la quantità dei movimenti effettuati, ma la loro qualità o meglio la loro utilità rispetto a quello che il bambino è impegnato a fare in quel momento, infatti, la vera iperattività tende ad essere casuale, scarsamente organizzata e non finalizzata: sovente il bambino è costantemente in moto, “come un motorino” e pressochè incapace di stare seduto e fermo.
In entrambi i sottotipi della sindrome sono sempre presenti difficoltà di concentrazione ed impulsività.
Ad esse si possono associare, a seconda dell’’età, altre manifestazioni quali, ostinazione, negativismo, atteggiamenti ribelli, prepotenza, abilità di umore, bassa tolleranza alle frustrazioni, esplosioni di collera, bassa autostima.
La diagnosi di SDA viene posta, in genere, soltanto all’inizio del’attività scolastica, ma si pensa che l’esordio sia verso l’età di tre anni (in soggetti di età inferiore i comportamenti finalistici sono ancora limitatissimi, per cui è impossibile parlare di deficit dell’attenzione).
Per quanto riguarda la prevalenza, questa sarebbe di circa il 5% nei maschi prepuberi (Cantwell, 1979), e di circa il 3% in entrambi i sessi (DSM III).
Il motivo della maggior frequenza della SDA nel sesso maschile riconosce probabilmente varie cause. Nei bambini sarebbe più diffusa soprattutto la forma con iperattività, con conseguente maggior facilità di diagnosi.
La prevalenza della SDA con iperattività nei maschietti viene spiegata variamente dai diversi AA.: secondo alcuni ciò è dovuto al fatto che, almeno, nella nostra cultura l’aggressività è maggiormente accettata nei bambini che nelle bambine, alte quali sarebbe impedito, fin dalla più tenera età, di esprimerla.
Inoltre, secondo altri AA., esisterebbero delle differenze qualitative e quantitative tra cervello maschile e femminile dovute all’azione esercitata sull’encefalo, in epoca prenatale, dagli ormoni gonadici (Gorski, l978).
Rispetto, pei, all’eziologia della SDA in gene-tale è molto probabile che questa non sia unica, anche se, attualmente, viene generalmente ritenuto che si tratti di una condizione congenita, ma noi necessariamente ereditaria.
Un certo numero dei bambini che presentano una SDA, sembra siano realmente affetti da qualche forma di danno o disfunzione cerebrale, che potrebbe essere di origine genetica o acquisita in utero.
In alcuni casi siamo sicuramente di fronte ad una trasmissione generica, in quanto questa condizione si presenta in molti membri della stessa famiglia, e anche in bambini che provenendo da tali famiglie siano stati adottati.
Pochi dei soggetti affetti da una SDA presentano qualche alterazione elettroencefalografica, e solo la minoranza alcuni deboli segni neurologici, quali disfunzioni motorie e per-cettive (come ad es. scarsa coordinazione tra occhio e mano).
Una prova di una probabile alterazione dello sviluppo, in determinati casi di SDA, sembra essere l’associazione con certe minime
formazioni fisiche, come una plica epicantica, un “solco palmare scimmiesco”, ecc. Talvolta si osserva anche un ritardo dell’età scheletrica.
AI di là delle possibili diverse eziologie, si ritiene che la « sindrome da deficit dell’attenzione » riconosca un meccanismo patogenetico unico, riconducibile ad una alterazione nel metabolismo dei mediatori della trasmissione nervosa (Snyder, 1977).
Una recente indagine svolta da Mary Coleman a Washington, ha rilevato l’esistenza di elevati livelli ematici di serotonina nei soggetti colpiti da SDA. Inoltre, Shekim dell’Università del Missouri, ha segnalato una ridotta eliminazione urinaria di MHPG, uno dei metaboliti della noradrenalina.
Comunque, se in futuro sarà di estrema importanza arrivare a comprendere l’esatto meccanismo eziopatogenetico di questa sindrome, ciò che adesso ci interessa maggiormente sottolineare, è l’importanza del suo riconoscimento il più precoce possibile. Infatti, come già accennato all’inizio di questo articolo, mentre i sintomi primari della SDA, per quanto estremamente fastidiosi per genitori ed insegnanti, possono generalmente essere affrontati con relativa facilità, anche considerato che il bambino è di solito dotato di normale intelligenza, i problemi secondari, rappresentati da gravi disturbi dell’apprendimento, difficoltà nella socializzazione, deficit dell’autostima con conseguente depressione, sono di difficile risoluzione, e possono comportare un duraturo handicap psicosociale.
Da Rivista L’insegnante specializzato, 2/85.
ISFAR viale Europa 185/b Firenze, info@isfar-firenze.it, www.isfar-firenze.it
[/pt_text]