ANGELO R. PENNELLA
[/pt_text]La sordità provoca indubbiamente una serie di anomalie in quel complesso processo che consente al bambino di passare da una comunicazione prelinguistica non intenzionale ad una comunicazione linguistica intenzionale.
L’evidente deficit che caratterizza i soggetti sordi rispetto a questo ultimo stadio ha sempre riscosso un notevole interesse da parte degli educatori e degli specialisti in genere e questo probabilmente perché si è stati portati a considerare la mancata acquisizione del linguaggio come un importante ostacolo per l’accesso del non udente nella comunità umana. Un simile atteggiamento è sotteso non solo dalla convinzione dell’esistenza di una stretta identità tra intelligenza e linguaggio verbale (quest’ultimo considerato come una tipica caratteristica dell’uomo) ma anche da una errata concezione della didattica e della riabilitazione. Troppo spesso, infatti, si considera il recupero nei termini di una restituzione del soggetto handicappato, quindi anche del non udente, ad una società vissuta erroneamente come statica.
L’integrazione del disabile viene così banalizzata in un condizionamento di risposte comportamentali considerate a torto come segnali di una acquisita normalità mentre in realtà non tendono a rappresentare altro che una ulteriore emarginazione operata dal gruppo dei normodotati nei confronti del disabile. L’integrazione non si raggiunge tout court con il possesso, da parte del disabile di specifiche sequenze comportamentali considerate dal gruppo come proprie della « normalità », quanto piuttosto attraverso l’apprendimento di sequenze e strategie che consentano il raggiungimento di un personale e creativo equilibrio con il proprio ambiente: se ciò non accade si sarà riusciti solo a condizionare questa persona.
Il fatto che a volte si confonda l’abilità con l’integrazione, il frammento comportamentale con la capacità ad interagire, l’esecuzione di un atto molecolare con uno molare appare con evidenza « nell’educazione dei bambini sordi in cui spesso si attua una propedeutica di insegnamento fondata sulla ripetizione da parte del bambino di parole o di frasi che presentano una progressione di difficoltà ortofoniche ma che sono tratte, sic et simpliciter, da un lessico astratto non legato alle esperienze reali».
La significatività della motivazione affettiva quale prerequisito all’acquisizione del linguaggio emerge qui come esigenza a far si che ogni struttura linguistica corrisponda ad un bisogno di comunicazione da parte del bambino.
Gli esercizi di ripetizione non debbono rappresentare infatti un qualche cosa di estraneo ai bisogni del soggetto, una pura esercitazione mnemonica cioè, quanto piuttosto un nuovo strumento offerto al sordo per controllare, attraverso la comunicazione linguistica la propria realtà. Parallelamente appare fondamentale il fatto di non cadere nell’errore di ricondurre il concetto di comunicazione a quello di linguaggio. Se si accettasse tale sinonimia, infatti, automaticamente si ignorerebbero gli aspetti non verbali della comunicazione che invece tanta importanza hanno nelle possibilità offerte all’individuo di interagire con gli altri.
Concludendo queste nostre riflessioni preliminari sull’integrazione riteniamo opportuno precisare che un processo non può essere considerato integrante se non prevede componenti assimilative oltre che di accomodamento.
Non è possibile pensare, infatti, di « integrare » il «deviante» esclusivamente costringendolo ad acquisire concetti e comportamenti « normali » che, nel caso dei sordi, appaiono come un insieme di vocaboli più o meno vasto. Risulta necessario, infatti, cercare contemporaneamente di modificare il contesto affinché sia possibile una assimilazione (più o meno vasta) di esso da parte dell’individuo handicappato. Non si dovrà, dunque, solamente operare per ridurre, ad esempio, le barriere architettoniche che limitano le possibilità di movimento dei disabili motori, ma anche identificare e circoscrivere (per ciò che è realistico) gli effetti negativi connessi alle barriere uditivo-linguistiche.
D’altra parte, una volta riconosciuta la stretta interdipendenza dei processi di educazione socializzazione e riabilitazione, riconosciuta cioè come fondamentale l’identificazione e l’utilizzazione delle capacità funzionali acquisite dal disabile e, contemporaneamente, l’attuazione di interventi tesi a modificare gli aspetti patologici presenti risulta imprescindibile da un lato offrire al non udente la possibilità di accedere alla comunicazione verbale, dall’altro però anche quello di valorizzare i canali di comunicazione non verbali.
Lasciando ora da parte questi aspetti non verbali della comunicazione, ci sembra importante sottolineare in questa sede il carattere pluridimensionale del linguaggio che non può essere circoscritto al mero ruolo di strumento per la trasmissione di dati comunicabili: solo una attenta valutazione di questa pluridimensionalità può consentire, a nostro avviso, l’attuazione di interventi che riescano ad avere una prospettiva ampia e perciò stesso integrativa. Il linguaggio, infatti, travalica la sua (pur importante) funzione denotativa consentendo all’uomo l’accesso ad una realtà più complessa, per certi versi parallela, per altri giustapposta, per altri ancora perfettamente aliena da quella fisica. « Una parola può essere collegata stabilmente ad un oggetto; in questo caso la parola stessa è una realtà oggettuale, cioè un messaggio fisico sonoro, più o meno complesso che ha il significato di un riferimento ad un’altra realtà oggettuale.
Nel linguaggio umano il significato della parola è più vasto e più complesso poiché la parola stessa può prescindere da un collegamento diretto con la realtà esprimendo, per esempio, un concetto che è una astrazione dalla realtà e che pur comprende indirettamente e più completamente la realtà esterna a cui fa riferimento ».
In sostanza risulta possibile affermare che il linguaggio possiede una serie di funzioni e non rappresenta solamente un articolato insieme di segni (sonori e grafici) che rinviano, in modo più o meno diretto, all’oggetto, consentendo cosi contemporaneamente una archiviazione dell’esperienza. Esso permette anche la formulazione di ipotesi esplicative concernenti la natura, giungendo spesso con esse a livelli di astrazione solo lontanamente correlabili al dato esperienziale (basterà pensare all’aneddoto della mela di Isacco Newton). Oltre a tutto questo il linguaggio consente anche la costruzione di una realtà linguistica che a volte può apparire altrettanto coercitiva di quella fisica e che comunque tende ad imbrigarsi con quest’ultima (si pensi all’importanza che può avere nel pensiero magico la formula verbale, l’anatema quale mezzo per indurre una modificazione nella realtà fisica e psichica del soggetto).
Probabilmente questa serie di funzioni affonda la propria origine nel fatto che il linguaggio rappresenta un codice estremamente complesso frutto della condensazione di una esperienza umana oramai millenaria. Fondamentalmente, inoltre, esso appare come uno strumento estremamente elastico e versatile. Tutto questo lo distingue radicalmente dal linguaggio gestuale che, proprio in seguito alle sue caratteristiche, non ha potuto avvantaggiarsi di quanto l’uomo andava sperimentando nel corso della sua storia. Mentre la lingua orale è stata in grado di sviluppare enormemente il proprio vocabolario, la propria articolazione razionale ma anche i propri aspetti metaforici, metonimici, simbolici, ecc., il linguaggio gestuale non acquisiva « spessore » proprio perché intrinsecamente impossibilitato ad effettuare una conservazione del proprio patrimonio.
Una opera gestuale deve essere tradotta, per poter essere conservata, « nella lingua scritta che la tradisce e che non lascia sussistere niente di ciò che essa ha di originale. Così le opere teatrali si conservano grazie alla scrittura e si trasmettono indipendentemente, mentre il mimo, come in una certa misura la danza, può beneficiare solo di una trasmissione regionale e limitata ».
D’altra parte, anche se è possibile disquisire sulle possibilità reali del linguaggio gestuale quale strumento di comunicazione intenzionale non verbale, appare evidente che esso si caratterizza per alcune sue intrinseche limitazioni che possono essere così sintetizzate: necessità di una quantità adeguata di illuminazione, orientamento del ricevitore verso l’emittente, impossibilità di effettuare un lavoro nel corso della comunicazione, scarsa quantità di informazioni rapportate all’unità tempo. Anche se ciò non implica necessariamente una inferiorità del linguaggio gestuale nei confronti di quello orale, constatando il fatto che quest’ultimo è caratteristico di ogni raggruppamento noto di esseri umani, appare possibile affermare con Ribot che « la parola ha vinto perché valeva di più », intendendo con questo che il linguaggio orale si è dimostrato evolutivamente più efficace nel favorire l’assimilazione dell’ambiente da parte dell’uomo.
Se da un punto di lista squisitamente « filogenetico » il linguaggio appare quindi come una acquisizione determinante per lo sviluppo della cultura nel suo complesso, da un punto di vista « ontogenetico » esso risulta fortemente connesso ai processi di strutturazione della personalità. Ci soffermeremo a questo proposito su due interessanti qualità « psicologiche » possedute dal linguaggio. Seguendo in questo il pensiero di E. Sapir, è possibile identificare la prima di queste qualità nella tendenza dell’individuo a vivere la lingua «come un sistema simbolico perfetto in un ambiente perfettamente omogeneo… (in grado di trattare) tutti i riferimenti e tutti i significati di cui sia capace una data cultura »
Questo carattere di sostanziale perfezione, attribuito al linguaggio, appare sotteso dalla possibilità di inglobare in esso nuove esperienze attraverso una ulteriore applicazione dei principi che lo governano. Una simile affermazione risulta valida non solo in relazione ai gruppi (si pensi a ciò che è implicito ne neologismo « gambizzare »), ma anche rispetto all’individuo che risulta, nel corso del suo sviluppo e grazie ai processi di maturazione ed apprendimento, sempre più in grado di inserire ed elaborare la propria esperienza attraverso il linguaggio. D’altra parte, questo carattere di « sistema simbolico perfetto » consente, sempre secondo E. Sapir, quella scoperta di nuovi significati « che non si possono semplicemente far risalire alla data qualità dell’esperienza stessa ma che vanno spiegati in larga misura come il proiettarsi di significati potenziali nella materia grezza dell’esperienza ». Riformulando questo concetto con un esempio, noi possiamo, grazie al linguaggio, discutere di fatti di cui non abbiamo una diretta esperienza (si pensi all’allunaggio degli astronauti) e di cui possiamo ipotizzare una serie di possibili conseguenze in una rete di causa-effetto che va ben oltre il dato esperienziale di partenza. « La lingua ha il potere di analizzare l’esperienza in elementi teoricamente separabili e di creare quel mondo del potenziale che si fonde gradualmente con il reale e che permette agli esseri umani di trascendere il dato immediato della loro esperienza individuale e di partecipare ad una più vasta comprensione. Questa comprensione comune costituisce la cultura… ».
La seconda caratteristica descritta da E. Sapir a proposito del linguaggio ed avente una rilevanza psicologica è relativa al fatto che la lingua, « rispetto al comportamento reale, non rimane staccata dall’esperienza diretta e neppure si svolge parallela ad essa ma si intreccia ad essa indissolubilmente ». Nella nostra esperienza quotidiana, infatti, la comunicazione verbale si interseca, si integra e spesso si sostituisce all’atto comportamentale fisico. Nelle normali interazioni la parola viene considerata come un vero e proprio atto comportamentale in grado di intervenire efficacemente sulla realtà: un insulto verbale, ad esempio, induce tutta una serie di reazioni biochimiche facilmente rilevabili, se non addirittura una risposta fisica.
Questa caratteristica, che rende il linguaggio parte costitutiva del mondo in cui ci muoviamo (un mondo, è opportuno precisarlo, in cui non è possibile effettuare quella semplicistica ripartizione dicotomica « natura-cultura » in quanto l’una è strettamele interconnessa con l’altra) e che lo determina in modo massiccio, si esaspera se ci riferiamo al pensiero ed alle pratiche magiche. Uno dei presupposti fondamentali per l’attività magica si basa infatti proprio sul « potere della parola, del nome, di evocare la realtà a cui fa riferimento e soprattutto di agire su di essa». Lo stretto legame esistente tra il linguaggio e le pratiche di tipo magico sono state ampia-mente descritte dagli antropologi che hanno esplicitato il carattere evocativo della « formula verbale » quale strumento per agire, tramite una realtà metafisica, sull’ambito del concreto.
Analoghe interessanti osservazioni sono state fatte in relazione a quel particolare uso del linguaggio che si manifesta nel bambino. L’egocentrismo infantile e la sostanziale difficoltà ad identificare la reali cause dei fenomeni che si osservano, agganciate ad una mancanza di permanenza nell’oggetto, fanno sì che il bambino viva inizialmente in un mondo caratterizzato da quella causalità che viene descritta da J. Piaget come « magico-fenomenistica ». Il primo di questi due termini rintraccia la propria motivazione nel fatto che l’origine degli eventi « è centrata sull’azione del soggetto senza considerazione dei contatti spaziali » . Il bambino sembra cioè convinto di poter produrre un effetto nella realtà esterna in quanto questa viene vissuta come secondaria (e dipendente) dal Sé. La parola diventa quindi uno dei mezzi più sicuri per dominate la realtà e tale atteggiamento può venire a volte rinforzato dagli adulti che premiano o puniscono il bambino « magari per causali risposte più o meno spregiudicate attribuendogli una consapevolezza della parole che egli non ha.
Da quanto detto emerge, ulteriormente confermata l’ipotesi che tende ad attribuire al linguaggio un ruolo importante nella costruzione della nostra realtà. La stretta interconnessione e complementarietà di « fatti » e « parole » si manifesta dunque chiaramente nel bambino che, come dice Froebel, « non può ancora distinguere la parola e l’oggetto », nei primitivi dove la parola può consentire l’acquisizione o la perdita di determinate caratteristiche ma anche negli adulti normali, come abbiamo già avuto modo di osservare. Rinviando il lettore alla bibliografia esistente su questo punto, ci sembra interessante soffermarci ora su alcune conseguenze che si possono constatare, in relazione a quanto detto, nei soggetti anacusici.
Senza affrontare il problema connesso ai rapporti esistenti tra il linguaggio, il pensiero e l’intelligenza, problema che rimanda alla diatriba esistente tra coloro che individuano l’elemento primario nel linguaggio e coloro che, al contrario, sono strenui assertori della priorità del pensiero, è possibile constatare una relativa concordanza degli autori nell’attribuire al soggetto sordo una serie di deficit nello sviluppo psichico secondari all’handicap uditivo. Escludendo i fattori più direttamente connessi alla personalità, nei soggetti con anacusia sembrano manifestarsi con frequenza carenti capacità di astrazione, scarsa curiosità intellettiva e limitate informazioni relativamente ai settori più disparati della realtà. I fattori da noi elencati si possono considerare strettamente interconnessi: appare relativamente scontato, infatti, che un soggetto sordo inserito nella nostra attuale società non possa che raccogliere una piccola parte di quella marea di informazioni che la nostra cultura trasmette quotidianamente attraverso il suono. Il deficit informativo che caratterizza l’anacusico appare particolarmente significativo nei primi anni di vita in cui non è possibile utilizzare, attraverso il canale vicariante della vista, il linguaggio scritto quale fonte alternativa di dati.
D’altra parte la carenza nelle capacità di astrazione non rappresenta altro che una tendenza dei soggetti sordi a rimanere vincolati al dato percettivo « grezzo » senza sottoporlo ad una qualsiasi forma di elaborazione. Riprendendo le parole di H.G. Furth, appare sorprendente il fatto « che il settore nel quale i sordi restano indietro rispetto agli udenti abbia a che fare con la scoperta, con l’iniziativa da parte loro, piuttosto che con la comprensione o con l’applicazione dei concetti. In tutte queste situazioni sembra esserci un’incapacità di cercare le ragioni, non un’incapacità di ragionare. Non è facile per i sordi dubitare delle apparenze percettive o metterle in forse ».
Non è casuale che Furth abbia effettuato una specifica ricerca tesa a confrontare le prestazioni, fornite dai bambini sordi, relativamente a compiti che richiedevano la scoperta di simboli, con quelle fornite dai bambini normoudenti di estrazione sia urbana che rurale. Il rendimento espresso dai tre gruppi si differenziava con evidenza e poneva i soggetti con handicap uditivo nelle posizioni più basse. Si constatò tuttavia anche una notevole differenza nelle performance fornite dal gruppo dei bambini rurali rispetto a quelli che provenivano da un ambiente urbano: questi ultimi, infatti, offrivano delle risposte certamente migliori.
Furth spiega tali risultati affermando che la causa sottostante alle differenti performance ottenute dai tre gruppi sia connessa alla deprivazione di stimoli socio-culturali che colpisce (da un punto di vista quantitativo e qualitativo) sia i soggetti sordi che quelli provenienti da un ambiente prettamente agricolo. Se fosse valida una simile chiave di lettura, si potrebbe affermare che lo scarso rendimento dei bambini affetti da anacusia sia una conseguenza più di una carenza esperienziale che non di una di tipo linguistico. Furth continua precisando, infatti, che questa « insufficienza si palesa nel settore intellettivo non tanto nella mancanza di sostanziale incapacità di comprendere o di applicare i principi razionali quanto in una sfera che si può definire intellettivo-motivazionale e che riguarda l’iniziativa spontanea o la scoperta della mente che ricerca ».
Senza avere velleità di disconfermare le conclusioni di Furth, ci appare tuttavia estremamente difficile compiere una netta distinzione tra esperienze non linguistiche ed esperienze linguistiche, specialmente quando, una volta superata la prima infanzia, il soggetto normodotato, comincia ad utilizzare in modo sistematico la comunicazione verbale. In ogni caso appare suggestivo il fatto che le osservazioni condotte da E. Sapir a proposito del linguaggio (e brevemente descritte in precedenza) ci consentono di rapportare le carenze nell’astrazione e nella curiosità intellettiva caratteristiche dei bambini sordi, alla funzione « elaborativa » svolta dal linguaggio orale.
Come si è detto, infatti, esso permette di collegare in modo estremamente efficace ed efficiente un evento all’interno di una fitta rete di nessi causali che possono travalicare la qualità dell’esperienza da cui l’evento stesso ha avuto origine. Il deficit nell’astrazione, così come quello nella curiosità intellettiva, potrebbe quindi essere spiegato, in altri termini, come una conseguenza della impossibilità del bambino non udente di utilizzare il linguaggio quale strumento conoscitivo nel suo duplice ruolo di archiviazione dati e formulazione ipotesi.
Da Rivista L’insegnante specializzato 1/90
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