SAVERIO FONTANI
[/pt_text]Alcuni modelli teorici della memoria
II primo approccio allo studio del ritardo mentale fu quello psicometrico.
Precursori ne furono Binet e Simon (1908). Essi, nel tentativo di individuare i soggetti che necessitano di un’educazione diversi-ficata, predisposero una serie di prove a difficoltà crescente. Binet introdusse anche il concetto di Età Mentale (EM) e di Età Cronologica (EC).
Il concetto di Quoziente Intellettivo (Q.I.), inteso come rapporto tra EM ed EC, fu invece introdotto da Stern (1912).
Lo sviluppo di metodologie più sofisticate, come l’analisi fattoriale, permise una serie di contributi trai quali sono da ricordare quelli di Spearman (1927) e di Thurstone (1938).
AI filone psicometrico devono essere fatti risalire anche metodi valutativi di vastissi-mo uso, quali le scale Wechsler per adulti (1949; 1955; 1976).
Degne di nota anche le scale Stanford-Binet rivedute da Terman e Merrill (1960). Gli strumenti suddetti concepiscono l’intelligenza come un processo unitario, o come un’abilità generale traducibile in termini quantitativi tramite il Q.I.
Di conseguenza il Q.I. verrà considerato come la misura più significativamente espressiva del ritardo mentale (Zigler, 1984).
La centralità del ruolo dell’intelligenza nella definizione del RM non mancò di portare alla nascita di diatribe in ambiti accademici ed applicativi.
Da parte dell’American Association of Mental Deficiency (AAMD) nacque così la proposta di considerare anche il grado di adattamento sociale, oltre a quello intellettivo. L’AAMD raccomandava inoltre che « … nessun bambino deve essere classificato come RM se non risulta tale a livello intellettivo (misurato tramite Q.I.), e il livello di comportamento adattivo da misurarsi con strumenti adeguati » (Tampieri et al., 1988). Su richiesta dell’AAMD, Heber (1961) pre-dispose una classificazione del ritardo mentale sulla base di cinque livelli di Q.I.
- borderline 84-70 • lieve 69-55 • medio 54-40 • grave 39-25 • gravissimo <25
Ogni livello era accompagnato da elementi descrittivi relativi sia all’adattamento intellettivo, sia a quello sociale.
Questo punto di vista si è conservato, pressoché inalterato, sino all’ultima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM 3°-R, tr. it. 1988), dove sono considerati quattro gradi di gravità:
- lieve 50/55-70 • medio 35/40-50/55 • grave 20/25-35/40 • gravissimo < 20/25
I criteri per la diagnosi di ritardo mentale sono: (DSM 3°-R, 1988)
- a) funzionamento intellettivo generale significativamente inferiore alla media;
- b) deficit dei comportamento adattivo; c) esordio in età evolutiva, e comunque non oltre i 18 anni.
Zigler et al. (1984) criticano il concetto di adattamento sociale poiché non sono suf-ficientemente definiti i criteri della competenza sociale.
Tale fattore, forse unito ai notevoli problemi di validità ed attendibilità nell’assessment sociale (Tampieri et al., 1988) ha condotto i clinici ad usare solo il Q.I. per la quantificazione dell’intelligenza (Zig1er et al., 1984). A tale proposito, Zigler ipotizza l’esistenza di due distribuzioni differenziate dell’intelligenza. La prima sarebbe dovuta a fattori ambientali e comprenderebbe i ritardatari mentali con Q.I. compreso tra 50 e 70.
li ritardo ambientale non rappresenta necessariamente un danno patologico; piuttosto è l’espressione della parte inferiore della distribuzione gaussiana dell’intelligenza (Zi-gler et al., 1984; Soresi e Zucco, 1989; Zucco, 1993).
I ritardati mentali ambientali, o familiari, rappresentano la grande maggioranza complessiva dei ritardati: il 75% seconde Zigler (1984).
La distribuzione de!l’intelligenza del secondo gruppo sarebbe dovuto a conclamati danni organici.
Il Q.I. dei ritardati organici è compreso tra 0 e 70; la maggioranza mostra comunque un Q.I. inferiore a 50.
Mentre i ritardati mentali ambientali si ritrovano, per la maggioranza, in strati sociali economicamente depressi, quelli organici compaiono in tutti i livelli sociali.
Altro criterio diagnostico per la differenziazione tra i due gruppi di ritardati è t’aspetto fisico. Nei RM organici esso sarebbe segnato dal disturbo.
Esisterebbero marcate differenze anche nella struttura cerebrale; quella dei ritardati familiari non si differenzierebbe da quella di soggetti normali (Zigler et al., 1984).
Il dibattito tra deficit strutturali e di controllo
Tale diatriba ha dominato il panorama nelle ricerche dei settore.
I sostenitori dell’ipotesi strutturale indicano come fonte de;la variabilità tra normali e ritadati mentali le diverse caratteristiche delle strutture cerebrali (Ellis e Boyo, 1986; Ellis, Deacon, Wooldridge, 1985).
Di contro, la teoria « ritardista » chiama in causa la difficoltà dei RM a controllare le informazioni in entrata e ad usare strategie di apprendimento adeguate (Zigler, 1965; Brown e Campione, 1977; Belmont, 1978; I989; Borkowski e Cavanaugh, 1979; Brooks, 1984, Mastropieri et al., 1987; Tampieri et al., 1988; Ellis e Allison, 1988).
E necessario premettere che risultati sperimentali non sono univoci. Di conseguenza la diatriba non è ancora sopita, frastagliandosi piuttosto in posizioni intermedie (Baumeister, 1984).
Per una rassegna completa delle posizioni teoriche, si veda Soresi e Zucco (1989). Norman Ellis è uno dei maggiori sostenitori dell’ipotesi strutturale. Nel 1953 introdusse il concetto di debolezza della traccia dello stimolo. Nei soggetti RM l’engramma si tenuerebbe un modo più rapido che nei normali, stante la magno!ore fragilità del Sistema Nervoso Centrale. Da qui la sostanziale incapacità degli RM di trarre giovamento dall’uso di qualsiasi strategia di apprendimento. Risulterebbero infatti colpite le parti basilari del loro sistema di memoria.
Tale posizione non è stata esente da critiche; quella principale riguarda la scarsa attenzione concessa dagli autori alle componenti non cognitive, quali la motivazione e l’attenzione.
Tuttavia, Ellis ha recentemente modificato la propria teorizzazione, riconoscendo l’importanza di qualche strategia di apprendimento (Ellis, 1970; Ellis, Deacon, Wool-dridge, 1985).
Infatti, impedendo l’uso del rehearsal tramite un compito inerente, Ellis et al. riscontrarono prestazioni deficitarie dei ritardati rispetto a soggetti normali. Tali dati furono comunque interpretati come prove a confronto dell’ipotesi strutturale (Ellis et al., 1985).
Sui versante opposto, Zigler può essere considerato tra i maggiori esponenti della corrente « ritardista ». Zigler (1966; 1984) afferma che la variabilità nelle prestazioni tra normali e RM è dovuta alla lentezza con cui questi ultimi progrediscono nello sviluppo cognitivo.
Le differenze tra RM familiari e normali avverrebbero così su base quantitativa.
Anche i soggetti RM possono raggiungere gli stessi livelli di sviluppo dei coetanei normali.
Lo sviluppo cognitivo seguirebbe stadi universali; di conseguenza vengono esclusi i limiti strutturali ed i deficit specifici (Soresi, Zucco, 1989).
Esistono infine, come accennato, posizioni teoriche intermedie (Baumeister, 1984; Soresi e Zucco, 1989).
Le prestazioni deficitarie dei soggetti RM sarebbero, secondo tali orientamenti, da attribuire ad un concorso tra limiti strutturali e processi di controllo.
Infatti Baumeister (1984) nota come i miglioramenti dovuti a training non escludano limiti strutturali, qualora i miglioramenti non si generalizzino oltre la situazione sperimentale.
La posizione teorica suddetta potrebbe spiegare efficacemente i risultati sperimentali contrastanti che caratterizzano il dibattito. È infatti noto come le prestazioni dei soggetti RM in compiti di memoria oscillino tra un mancato uso delle strategie ed una loro applicazione adeguata (Bray e Turner, 1986). Baumeister conclude la propria analisi con la raccomandazione di individuare il potenziale di apprendimento del soggetto RM. A questo scopo l’autore consiglia di stabilire una soglia strutturale oltre la quale gli interventi sono in grado di modificare il comportamento ritardato.
Strategie mnestiche e metamemoria
Nel 1970 Ellis pubblicò un contributo sperimentale in cui affermava che le prestazioni deficitarie dei RM erano dovute a carenze nell’uso del rehearsal.
Contemporaneamente Flavell (1970) distingueva i deficit di produzione dai deficit di mediazione.
I primi indicavano l’incapacità di uso spontaneo delle strategie.
I deficit di mediazione, invece, erano caratterizzati da difficoltà di padroneggiamento delle abilità di base su cui erano fondate le strategie.
Questi due lavori possono essere considerati come la base di partenza di uno dei più produttivi filoni di ricerca dell’orientamento HIP: lo studio del comportamento strategico nei soggetti RM.
Questo orientamento riflette, ovviamente, la speranza che le difficoltà di apprendimento ed i deficit di memoria siano risolubili tramite un miglioramento dei processi di controllo.
A tale proposito Cornoldi (1986) individua una serie di fattori responsabili dei deficit di produzione:
— mancata differenziazione tra memoria intenzionale e memoria incidentale;
— problemi nella scelta delle strategie;
— controllo inadeguato durante l’uso della strategia;
— errata valutazione delle difficoltà inerenti al compito.
Quanto esposto illustra efficacemente l’importanza della metamemoria. Essa può essere considerata come il sistema di conoscenze che il soggetto possiede sulla propria memoria, e sulla memoria in generale. I deficit di produzione possono essere ascritti, infatti, a deficit della componente metacognitiva (Borkowski, Reid, Kurtz, 1984; Hartley, 1986).
Borkowski, Weyhing e Turner (1986) propongono, a tale scopo, un training metacognitivo includente variabili cognitive ed affettive.
Secondo Borkowski et al., nella generalizzazione delle strategie risultano centrali tre fattori.
Il primo concerne la scelta di strategie specifiche ed è correlato alla conoscenza dell’efficacia delle strategie stesse.
Il secondo fattore concerne invece l’acquisizione dei processi decisionali necessari per la selezione delle procedure metacognitive.
L’ultimo aspetto riguarda, infine, la conoscenza strategica generale. Il training proposto da Borkowski e coll. sottintende aspetti enfatizzanti il ruolo degli aspetti attributivi, nella convinzione che la motivazione e le credenze influenzino il comportamento strategico.
Risulta così centrale l’esistenza di un corretto sistema di attribuzione dei fallimenti e dei successi (Borkowski e coll., 1986).
È infatti noto come i soggetti ritardati siano particolarmente sensibili all’insuccesso ed alla frustrazione.
Ne deriva come i ripetuti insuccessi possano portare ad una diminuzione della motivazione all’apprendimento.
Un orientamento così concepito illustra, in primo luogo, l’importanza dello studio congiunto dei fattori cognitivi e motivazionali, troppo spesso considerati come sistemi separati.
In secondo luogo, il training metacognitivo proposto enfatizza come i processi motivazionali non debbano essere considerati come elementi, della memoria.
Essi, al contrario, dovrebbero configurarsi come centrali nello sviluppo cognitive; e questa osservazione potrebbe essere generalizzata anche allo sviluppo normale.
Memoria ed apprendimento nella sindrome di Down – una breve introduzione storica
Il primo a descrivere la sindrome di Down come entità nosografica specifica fu Langdon Down {1865). Egli la interpretò come una « regressione verso una tipologia orientale primitiva ».
Da qui il termine « mongolismo » il cui uso è, con il tempo, divenuto sempre meno frequente.
Per interpretare gli aspetti etiologici e clinici della sindrome furono elaborate numerose teorie (Shutteleworth, 1895).
Esse furono definitivamente superate nel 1959, quando Leieune, Turpin e Gauthier ne scoprirono le cause genetiche.
I soggetti Down hanno una terna di cromosomi nella coppia 21, disponendo di un totale di 47 cromosomi invece dei normali 46 (Mastroiacono, 1982; Mastrangelo, 1975; Ferri, Spagnolo, 1989).
Tale anomalia è dovuta ad una mancata di-sgiunzione durante le meiosi; non sono altrettanto chiare le cause di questa alterazione cromosomica.
Alcuni autori (Carter e Evans, 1961; Penrose, 1957) enfatizzano l’importanza dell’età materna.
Un particolare, secondo Penrose (1957), il rischio di partorite un bambino affetto da sindrome di Down è di una probabilità su 1500-2000 per donne sotto i 30 anni, di una su 280- 350 dai 35 ai 39 anni, di una su 130 dai 40 ai 45. Infine, oltre i 45-50 anni, la probabilità è di una su 30-40.
Uchida (1973) afferma invece che la sindrome appartiene al gruppo « maternal age independent ».
Le cause della trisomia 21 sarebbero da attribuire, piuttosto, ad una mancata disgiun-zione paterna.
Escludendo volutamente un’analisi approfondita di questa ed altre controversie concernenti gli aspetti eziologici possiamo considerare la sindrome di Down come derivante « dall’interazione tra fattori progenetici non ereditari e le aberrazioni cromo-somiche » (Mastrangelo, 1975).
La trisomia 2I può presentarsi in varie forme.
Nel 95% dei casi il cromosoma in eccesso è libero.
Qualora la trisomia 21 si verifichi dopo la fecondazione si parla di « mosaicismo ». Esso rappresenta il 21 % dei casi totali (De Ajuriaguerra, Marcell, 1982; Rethault, 1983), ed è caratterizzato dalla presenza di linee cellulari normali frammiste a linee cellulari trisomiche a 47 cromosomi.
In tali casi la sintomatologia è più «diluita », e può talvolta avvicinarsi alla normalità.
Nel 3% dei casi si ha, infine, la traslocazione. Qui il terzo cromosoma non è libero, ma aderisce ad uno dei due cromosomi della coppia 2I.
La traslocazione più frequente è la 15-21 (Carter, 1960; Penrose, 1957), attribuito ad alterazioni del cariotipo materno (45 cromosomi). La traslocazione 21-22, molto più rara, deriva invece da squilibri cariotipici paterni (Penrose, 1957).
In questi casi, lo studio del cariotipo genitoriale rende possibili differenze sulla possibilità di avere un secondo figlio con sindrome di Down (Mastrangelo, 1975).
L’incidenza totale della trisomia 21 è di un caso su 600-700 (Ajuriaguerra, Marcell, 1982).
La sindrome di Down presenta un disformismo cranico facciale così evidente da permettere diagnosi, alla nascita, con notevole accuratezza (Lenzini, Baccichetti, 1991).
Nonostante l’assenza di modelli esplicativi della relazione tra il cromosoma in eccesso e la sintomatologia fisica, il quadro clinico della trisomia 21 presenta numerose peculiarità. Esse sono così schematizzabili:
- brachicefalia
- rima palpebrale obliqua
- macroglossia
- volta palatina alta e stretta
- clinodattilia
- dentizione irregolare
- disfunzioni respiratorie e circolatorie
(Penrose, 1957; Jackson, North, Thomas, 1976)
Intelligenza e sindrome di Down
Nel 1985 J.R. Morss pubblicava un interessante contributo dal titolo « Diversità o ritardo? »
Questo titolo sintetizza efficacemente la diatriba precedentemente accennata (Zigler, 1984), concernente lo sviluppo cognitivo dei soggetti RM.
Come ricorderemo, la maggioranza degli autori che propendono per la tesi del ritardo enfatizzano i training educativi precoci e l’inserimento scolastico.
A tali interventi è possibile attribuire il progressivo aumento dei soggetti Down con Q.I. più elevato. Infatti oggi i soggetti considerati « educabili », e quindi con Q.I. superiore a 50, rappresentano oltre il 30% dei soggetti Down (Cunningham, 1982; Accattini et al., 1984).
A tale considerazione è necessario aggiungere che, dopo l’introduzione degli antibiotici in terapia, le aspettative di vita per i Down si sono considerevolmente allungate. Prima dell’« era antibiotica », infatti, il 70% di tali pazienti decedeva prima della seconda infanzia (Mastrangelo, 1975).
Le precedenti riflessioni evidenziano così l’utilità e la necessità di mirati interventi di recupero, aventi come comune denominatore la non istituzionalizzazione dei Down (Accattini et al., 1984).
Lo sviluppo cognitivo dei soggetti Down prosegue anche tra i 20 e i 40 anni (Lambert e Rondal, 1979; Morss, 1985; Berry, Groeneweg, Gibson, Brown, 1984), anche se dopo i 15 anni è osservabile un considerevole rallentamento.
Hartley (1986) e numerosi altri autori puntualizzano comunque come il Q.I. declini con l’aumento dell’età cronologica.
Cunningham (1982) interpreta tale constatazione con l’argomentazione che i Down necessitano di più lunghi periodi di tempo per il consolidamento degli apprendimenti recenti.
Altri autori (Dicks e Mireaux, 1972) considerano il declino del Q.I. come espressione di una regressione precoce dello sviluppo. Maggiore accordo si ha sull’età mentale massima raggiungibile dai Down. Secondo Vianello (1970), essa è compresa tra i 5 e gli 8 anni.
Gibson (1978) fissa invece a circa 3 anni il limite suddetto.
Sviluppo attentivo
Girardeau (1959) afferma che i Down presentano una maggiore distraibilità rispetto a soggetti normali di pari età mentale.
L’autore sosteneva che le discrepanze nelle performances attentive dovessero essere correlate alla specifica etiologia della sindrome.
Tale ipotesi non venne però confermata da contributi successivi (Fisher, 1970; Belmont, 1971; Gibson, 1978).
Gli autori suddetti correlano le variazioni dei livelli attentivi al Q.I. generale, piuttosto che alla etiologia specifica del ritardo.
Secondo Douglas (1984) la SDA (sindrome da deficit attentivo) concerne solo determinati sottogruppi di bambini Down, contraddistinti da problemi a livello attentivo. Sembra legittimo concludere che i soggetti con sindrome di Down presentano la stessa distraibilità di ritardati mentali di diversa etiologia, ma con Q.I. corrispondente (Gibson, 1978).
Ulteriori contributi sperimentali concernono lo studio dei tempi di reazione nei soggetti ritardati. Il dato più evidente riguarda il maggiore rallentamento dei RM nei tempi di reazione, rispetto a soggetti normali. Tali risultati depongono a favore dell’ipotesi di un deficit strutturale (Zucco, 1993).
A questo proposito particolarmente euri-stica risulta l’ipotesi sostenuta da Morss (1985).
Secondo l’autrice, i Down presentano un semplice ritardo ad elementari livelli di elaborazione dell’informazione, quali sono gli aspetti propriocettivi e cinestetici (Anwar, 1981).
A livelli più complessi di elaborazione, invece, i Down presenterebbero deficit di tipo « strutturale », specificamente correlati alle peculiarità della trisomia 21 (Marcell, Weeks, 1988; Dellantonio, Lucca, Vio, Fiorellini, 1989; Dellantonio, Tagliaro, Grandi, 1990).
Nella fattispecie, Morss (1985) sostiene che, nei Down gli stadi evolutivi piagetiani si susseguono nello stesso ordine dei soggetti normali, sia pure con grandi variabilità individuali nei tempi di acquisizione e nella durata di ogni singolo stadio.
Omologabile ad una « diversità » strutturale è invece la minima competenza acquisita dai Down in ogni stadio, associata a carenze di mantenimento e di generalizzazione delle abilità acquisite (Morss, 1985).
Sviluppo percettivo
Come è noto, nella psicologia della percezione esistono due correnti che tendono a contrapporsi.
La prima, denominata bottom-up, considera il processo percettivo come fortemente influenzato dalle caratteristiche dello stimolo. La seconda concezione, nota come top-down, considera centrali le variabili interne al soggetto.
Senza entrare nel merito di tale diatriba, sembra necessario ricordare come, nei Down, esista scarsa sensibilità al fenomeno dell’« abituazione » (Miranda, Fantz, 1973). Tale fenomeno consiste nella progressiva riduzione del tempo di osservazione dello stimolo in seguito a ripetute presentazioni dello stesso. Nei soggetti normali, l’abituazione permette di ridurre il tempo di riconoscimento delle immagini.
Le scarse performances ottenute dai Down in compiti percettivi parrebbero, così, correlate con gli aspetti mnestici piuttosto che con quelli percettivi (Gagliardini, 1990).
Un altro dato ricorrente concerne la discriminazione delle figure complesse. In compiti di questo tipo i Down tendono a foca-lizzarsi sui dettagli (Zeaman, House, 1960), mentre i soggetti normali si basano su di una percezione globale dell’immagine (Deich, 1968).
La capacità percettiva dei Down sembra co-si limitarsi alla distinzione di configurazioni semplici, con poche variabili (Stratford, 1979; 1980; Miranda e Fantz, 1973).
Secondo Tampieri et al. (1988), inoltre, la correlazione tra sviluppo cognitivo e difficoltà percettive è un concetto euristico nell’interpretazione delle difficoltà attentive e dell’incapacità di adattamento da parte dei soggetti ritardati.
Una peggiore capacità di discriminazione delle forme da parte dei soggetti trisomici è stata riscontrata anche da Saviolo et al. (Saviolo Negrin, Autelli, Saccato, 1987; Saviolo Negrin, Saccato, Chiabrando, 1990). Considerate le peculiarità del ritardo dei soggetti Down, appare evidente l’importanza di una diagnosi precoce e differenziale del loro sviluppo cognitivo, allo scopo di favorire interventi e programmi di recupero. Per una rassegna degli strumenti diagnostici si consulti Cornoldi e Soresi (1980).
Lo sviluppo linguistico
Il dato oggettivo concerne l’aumento del deficit linguistico in funzione dell’età cronologica.
Lennenberg (1967) afferma che lo sviluppo linguistico dei bambini trisomici è rallentato, ma segue lo stesso ordine sequenziale dello sviluppo normale.
Il linguaggio espressivo, nei Down, andrebbe incontro a un progressivo rallentamento, ed attorno alla pubertà si avrebbe un arresto globale del suo sviluppo (Lenneberg, 1967).
Un tale punto di vista trova numerose con-ferme nella letteratura recente (Flipsen, 1987; Pruess, Vadasy, Fewell, 1987).
Un altro dato consolidato riguarda la comparsa del linguaggio spontaneo, che nei Down non si avrebbe prima dei due anni (Layton, Sharifi, 1979).
Altrettanto ritardato è lo sviluppo della competenza linguistica, che molto spesso è inferiore alle aspettative basate sul livello cognitivo (Flipsen, 1987; Mahoney, Glover, Finger, 1981).
Una buona parte dei ritardi evolutivi suddetti sembra essere collegata a carenze uditive e a deficit di comprensione (Pruess e coll.., 1987).
È noto, infatti, che i bambini trisomici sono frequentemente colpiti da disturbi uditivi (Dale, Mc Collister, 1986).
Anche l’elaborazione delle informazioni udi-tive appare notevolmente rallentata (Lincoln, Kilman, Galambos, Courchesne, 1985). Essa parrebbe correlata ai deficit di comprensione (Mukayami, 1989; Rondal, Ghiotto, Bachelet, 1988).
A tale proposito, Hartley (1981; 1982) attribuisce i deficit di comprensione dei Down per compiti sintattici o sequenziali al maggiore coinvolgimento dell’emisfero destro nell’elaborazione delle informazioni linguistiche.
Tale dato è stato confermato da Gienke e Lewandowski (1989), i quali hanno notato una dominanza dell’orecchio sinistro nell’elaborazione delle informazioni uditive.
I deficit di comprensione dei Down divengono evidenti se si considerano le specializzazioni di tipo distico e visuospaziale dell’emisfero destro. Questo, infatti, è assai meno efficiente del sinistro in compiti di elaborazione uditiva-verbale (Hartley, 1982). Note le difficoltà dei bambini Down in compiti di comprensione e di produzione del linguaggio, si evince facilmente l’importanza di una diagnosi precoce nell’intento di favorire training educativi.
In tale contesto assumono particolare valore i programmi di riabilitazione linguistica che favoriscono la generalizzazione del materiale appreso.
È il caso del « time-delay » (presentazione differita) di Strieflel e coll. (1978). Tale tecnica consiste essenzialmente nell’aumento progressivo dell’intervallo temporale intercorrente tra la presentazione delle domande e quella degli aiuti, o « cues » (Halle, Karlan; 1978; Halle, Baer, Spradlin, 1981).
Il « time-delay » è stato usato con successo nella rieducazione verbale di soggetti RM, in particolare ecolalia (Risley e Wolf, 1969).
La memoria nei soggetti Down
La quasi totalità dei contributi sperimentali presenti in letteratura sottolinea come i soggetti trisomici presentino deficit nel recupero e nell’immagazzinamento delle formazioni (Rohr e Burr, 1978; Mc Dade, Adler, 1980; Ross, 1983; Snart, O’Grady, Das, 1982; Gupton, 1984; Ohr, 1991).
Numerosi autori evidenziano il fatto che nei Down sono presenti deficit nella memoria sequenziale uditiva, attribuibili alle predette carenze del canale uditivo (Rohr, Burr, 1978; Gupton, 1984).
Mentre Rohr e Burr (1978) indicano come causa dello scarso ricordo sequenziale un deficit globale dell’elaborazione, Varnhagen e Das (1987) enfatizzano la difficoltà dei Down nell’accesso alla memoria a lungo termine. I trisomici, infatti, presentano maggiori tempi di identificazione dell’item, mentre non sembra colpita la memoria per l’ordine temporale degli item (Varnhagen, Das, 1987).
Ne consegue l’attribuzione delle basse performances dei Down a deficit nell’elaborazione di informazioni linguistiche, soprattutto se presentate attraverso la modalità. uditiva.
In altri termini, i soggetti trisomici fallirebbero nella presentazione dell’effetto modalità. Come è noto, infatti, la presentazione uditiva porta ad un aumento nella rievocazione degli ultimi item della curva seriale (Conrad, Hull, 1968).
Secondo una corrente interpretazione, la presentazione dello stimolo attraverso la modalità uditiva comporrebbe una traccia mnestica resistente al deterioramento operato dal materiale visivo. Quest’ultimo, al contrario, sembra essere rapidamente degradato dal materiale uditivo (Broadbent, Vines, Broadbent, 1978).
Per spiegare l’assenza dell’effetto modalità nei Down sono state invocate numerose ipotesi.
Marcell e Weeks (1988) teorizzarono che fosse determinante la modalità orale di risposta richiesta ai Down. Gli stessi autori, però, non riscontrarono significativi miglioramenti sostituendo la modalità orale con quella manuale (Marcell, Weeks, 1988).
Un altro fattore esplicativo chiamato in causa concerne la presunta maggiore distraibilità dei Down in seguito a stimazione uditiva (Zekulir, Mosley, Gibson, Brown, 1974). Neppure in setting sperimentali, riducenti ai minimo la distraibilità uditiva, però, sono stati ottenuti migliori risultati (Marcell, Harvey, Cothran, 1988).
Un’interpretazione alternativa del fenomeno, inserita nel contesto della « working memory » (Baddeley, 1986), suggerisce come l’effetto modalità rifletta il contributo del precategoriat acoustic store, o « magazzino acustico precategoriale » (PAS) teorizzato da Crowder e Morton (1969).
Secondo tale linea interpretativa, l’assenza dell’effetto modalità nei Down sarebbe da attribuirsi ad un più rapido decadimento delle informazioni contenute nel PAS, associato ad una maggiore difficoltà di « trasduzione » delle stesse da parte del soggetto (Marcell e Armstrong, 1982).
Da Rivista L’insegnante specializzato 2-3/95
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