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RESINA ODDO

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Tema di questo contributo è la narrazione di una concreta esperienza da me vissuta che ha fornito l’occasione per la sperimentazione e la verifica di aspetti teorici e pratici inerenti le procedure d’integrazione nella realtà scolastica di portatori di handicap.

L’ambiente di lavoro fu costituito da una terza clas­se elementare nella quale il bambino F. si connotava per una serie di tratti sintomatici. F. presentava una fenomenica negativa che investiva l’area del linguaggio: una accentuato dislalia accompagnata da dislessia; inoltre, limitata, appariva la capacità di memorizzare sequenze, sia che fossero fonetiche oppure relative al campo delle forme. A ciò, co­me era da attendersi, si univano anche una scarsa propensione alla concretizzazione e una evidente fatica che io induceva a tralasciare, assai prima della sua conclusione, il lavoro iniziato. Molto spesso, pe­rò, gli risultava sgradito l’inizio stesso di un lavoro perché pronunciata era la sua avversione ad applicarsi alle attività curriculari. Concomitante con questi comportamenti era una spiccata aggressività verso i componenti del gruppo, non scevra da forme violente. Caratteristica costante del suo atteg­giamento risultava comunque una forte passionalità che lo portava a posizioni estreme: momenti di grande affettuosità si alternavano ad altri di acre avversione.

Quanto finora detto fu il risultato dell’osservazione fatta nelle prime settimane di contatto con l’allievo, risultato cine abbisognava pero di una verifica pio puntuale e obiettiva. A tal fine sottoposi F. a test di specifici per l’identificazione di disturbi inerenti alla dislessia. Tali tesi confermarono in modo univoco la presenza dei disturbi già sospettati, un quadro sintomatico molto simile a quello riscontrato e scritto da vari autori.

Costoro descrivono la dislessia come un fenome­no pertinente alta sfera cognitiva e tuttavia sono tutti concordi nel riconoscerne una concausa costante nei disturbi dell’orribile affettivo. Tale convinzione, da me condivisa, fece maturare in me tale decisione di intervenire su F. con un progetto didattico che andasse ad incidere proprio alla base del problema stesso; in questo era anche sostenuta dal quadro caratteriale di F. fortemente denotato da reattività nei confronti di sé stesso e dell’ambiente e ve­nivo confortata dall’opinione di Mucchielli e Bourcier che ritengono che il dislessico soffra nella prima infanzia di turbe della percezione di sé e degli altri, definizione come una vera e propria , malattia della comunicazione ».

Ritenni quindi opportuno rinviare a una fase successiva l’uso di tecniche di intervento più mirate ed ope­rare anzitutto su questo aspetto del problema, facendo diventare strumenti alcuni aspetti della per­sonalità dell’allievo. F. possedeva un ricco mondo fantastico che nella sua personalità si caratterizzava con l’amore per il gioco della finzione, il piacere di essere protagonista, il gusto di mascherarsi. Pur riconoscendolo come non vero, egli privilegiava questo mondo e nel mettersi in contatto con gli altri proponeva questo canale comunicativo a scapito di quello della routine scolastica.

Ritenni quindi che il modo più consono per interagire con F. fosse quello di fare in modo che la real­tà scolastica assumesse la natura di un contenitore in cui tutto il gruppo trovasse posto allo scopo di dare ordine e senso al materiale fantastico dell’allievo.

Nell’operare questa scelta, fui anche motivata dalla convinzione che questa caratteristica della personalità dei soggetto potesse rappresentarne « l’a­rea di sviluppo potenziale ». Vygotskij denomina così quell’area nella quale si intravede non, quello che il bambino sa già fare, bensì quello che potrà fare con l’aiuto dell’adulto; nel caso di F. quello che poteva fare in collaborazione col gruppo. Feci ricorso quindi all’attività, di laboratorio teatrale che mi sembra essere lo strumento privilegiato per attuare quel particolare clima che favorisse la vita di relazione in forma attiva e creativa. Va aggiunto che il « gio­co teatrale » mi dava l’opportunità di poter osser­vare il soggetto in una nuova «situazione», decontestualizzandolo — per casi dire — dell’am­biente specificatamente scolastico. Inoltre mi forni­va la possibilità di intravedere ampi squarci della storia personale di F., condizione questa che mi ap­parve di primaria importanza al fine di promuovere quella, continuità dello sviluppo individuale che vie­ne anche vivamente sottolineato dai Nuovi Programmi.

Deve essere precisato che lo scopo dell’opera­zione era certo quello di affrontare il disturbo del­la dislessia; tuttavia, siccome F. presentava dei problemi abbastanza evidenti sotto l’aspetto relazionale, sia che questi ultimi fossero a monte del­la dislessia o ne rappresentassero l’effetto, urgeva affrontarli primariamente in quanto costituivano co­munque un ostacolo a qualsiasi altro intervento spe­cifico.

Il teatro proprio per la sua caratteristica intrinseca permette di rappresentare la realtà consentendo ai protagonisti di « giocare » le proprie emozioni senza ansia e timore, in virtù della consapevolezza della finzione. Proprio questa peculiarità ne fa uno stru­mento didattico efficace in determinate situazioni, nelle quali il soggetto tende a sottrarsi alle richieste dell’ambiente. Il gioco drammatico permette quindi di riprodurre, trasformare e anche negare situa­zioni della vita reale grazie a un nuovo rapporto che si instaura tra il campo semantico e quello della realtà.

Il teatro circoscrive una zona carica di « significa­to », dove quest’ultimo determina l’azione; nella real­tà al contrario è l’azione a determinare il significato. Entrando in questo « campo » psicologico il bam­bino può dunque agire indisturbato e, sottraendosi alla pressione della realtà esterna, può far leva su tendenze e motivazioni interne imparando ad agi­re nell’ambito di un regno cognitivo.

Fasi del lavoro

1 Fase

Utilizzazione di uno spunto

Costruzione di una storia

2  Fase

Trasformazione della storia in dialoghi

3 Fase

  1. a) Studio del periodo storico
  2. b) Studio dei costumi
  3. c) Studio dell’architettura
  4. d) Ricerca dell’espressione linguistica

4 Fase

  1. a) Preparazione dei costumi
  2. b) Preparazione dei teli per la costruzione delle scene
  3. c) Adozione di linguaggi differenziati al fine di ca­ratterizzare i personaggi

Per la realizzazione di un laboratorio teatrale è ne­cessario prima di tutto utilizzare spunti tratti dalle fia­be, dai miti, dai racconti, onde trarne un pretesto narrativo. Il racconto può evolversi sulla strada del­l’analogia, dell’associazione, della trasposizione temporale o del rovesciamento di ruoli e situazioni. Quando si è realizzata la prima bozza si passa alla trasformazione della storia in dialoghi. Questo lavoro viene affrontato con la tecnica della recita a brac­cio, cioè sul filo della storia si drammatizzano le va­rie situazioni. In genere questa parte del lavoro è caratterizzata dalla possibilità, da parte del gruppo, di tagliare, aggiungere, avanzare nuove ipotesi e quindi di riformulare il testo. Tutto il gruppo prova e nella concretezza del « drama » si creano nuove possibilità espressive che prima, nella fase della co­struzione della storia, non avevano avuto modo di estrinsecarsi.

Man mano che il lavoro di sceneggiare la storia pro­cede, si cominciano ad individuare i ruoli che pian piano si consolidano con una naturale e spontanea attività di appropriazione.

 

Appunti operativi

Il tema è stato fornito dalla nota storia di Cesare, Antonio e Cleopatra. Il gruppo ha utilizzato questo spunto e lo ha articolato in scene e dialoghi e, se­guendo il filo della fantasia e della immaginazione, ha manifestato immediatamente la tendenza a riscrivere la vicenda. Man mano che la nuova trama si sviluppava e delineava, gli allievi diventavano sem­pre più capaci di operare delle rielaborazioni, applicando delle trasformazioni di significato e delle inversioni di senso. Progredivano nella Costruzione del testo usando spontaneamente tecniche sempre più raffinate quali il controsenso e il doppio senso. Questo procedimento ha prodotto alla fine una sto­ria con toni fortemente satirici e paradossali in cui la regina d’Egitto si trasforma da personaggio che subisce una situazione negativa, in una storia di femminista antelitteram che è artefice de!la propria esistenza.

Tecniche di induzione teatrale

Per provocare il « gioco teatrale » l’animatore stimo­la, sulla base del canovaccio, la realizzazione di bre­vi dialoghi da trasformare in azione con l’aiuto della mimica e del gesto. In principio i bambini cerche­ranno di realizzare queste scene molto sbrigativamente. Il ruolo dell’animatore-maestro in questo caso è quello di indurli a non agire in fretta; egli quin­di li guiderà affinché suddividano l’azione in tante sottoazioni. In principio gli alunni avranno difficol­tà, ma pian piano, dopo varie prove, il ritmo dell’e­secuzione verrà rallentato, i movimenti diverranno più appropriati, il gesto si farà più preciso e accom­pagnerà la parola in modo naturale e spontaneo. Gli interventi dell’animatore-maestro servono a fis­sare le idee; egli, al fine di interpretare bene ciò che suggeriscono gli allievi, pone delle domande: così i bambini vengono aiutati a scegliere tra le eventuali e varie soluzioni possibili e inoltre hanno assi­curata la garanzia di giungere alla stesura della trama alla quale tendono.

Allestimento scenico

Il lavoro si articolava su sette quadri, svolgentisi nel seguente ambiente scenico:

  1. a) Due teloni di fondo con generici motivi egizi.
  2. b) Il sarcofago.
  3. c) Il palazzo di Cleopatra.

Materiali usati

  1. a) Cartoni
  2. b) Stoffe
  3. c) Corde
  4. d) Elastici
  5. e) Bastoni
  6. f) Frange

 

Lavoro scenografico

Si è articolato in tre momenti:

1) Fase di ideazione.

È scaturita da discussioni sull’opportunità di realiz­zare scene di semplice montaggio e sulla necessità di usare materiale povero o di facile reperibilità.

2) Fase di progettazione.

Ha comportato la scelta di elementi scenici che pre-vedevano: uno sfondo fisso in cui vi fossero simbo­li dell’Egitto.

Per le scene che si svolgevano in interno è stato prevista la costruzione della struttura architettonica del palazzo di Cleopatra e di un sarcofago.

Gli elementi mobili erano una nave e il mare. I co­stumi consistevano in: vesti da donna, armature di soldati egiziani e romani, scudi, elmi, monili.

3) Fase di realizzazione.

Ha visto la classe divisa in sezioni di lavoro:

— sezione A: costruzione della nave

— sezione B: costruzione del sarcofago e dello sfondo

— sezione C: costruzione del palazzo di Cleopatra.

I costumi e tutti gli altri elementi scenografici sono stati progettati individualmente, ma realizzati con la collaborazione di tutti.

 

Animazione delle scene

La nave di Cesare veniva animata da 4 rematori. Il mare era rappresentato da un pezzo di stoffa di fodera azzurra lunga 5 metri, sofferto davanti alla nave da due allievi che gli imprimevano un movimento ondulatorio.

La casa di Cleopatra era composta da due teli di carta da pacchi, colorati dai ragazzi; i teli venivano fatti scorrere su una corda quando era necessario cambiare scena.

Ciò serviva pure a rivelare i due teloni di fondo, per scene « in esterno ».

 

Linguaggi adottati

Linguaggio corporeo

Un progetto di drammatizzazione di una storia im­plica l’uso spontaneo, da parte degli allievi, di diversificate modalità espressive.

Fare teatro significa anzitutto agire e perciò non poteva essere escluso il linguaggio corporeo.

Poiché nella fase scolare il bambino tende a pri­vilegiare il corpo come mezzo di comunicazione, gli allievi hanno trovato spontaneo e naturale uti­lizzare il codice corporeo nella costruzione della storia.

Il gesto è stato usato per accompagnare la parola, completandola.

Il tono ha dato vigore all’azione, sottolineandone e enfatizzandone alcune fasi.

Il corpo, nella sua globalità, è stato adoperato, sia in situazioni dinamiche, sia in situazioni statiche, co­me elemento capace di esprimere negazioni o con­forme in momenti carichi di forte risonanza emo­tiva.

Sempre il corpo è stato il tramite che ha consentito di conferire ordine e significato allo spazio scortico: infatti ha scandito le distanze, ha circoscritto i luo­ghi, ha disegnato le prospettive.

L’espressione corporea, quindi, è stata intesa non solo come produzione spontanea, ma ha costituito un’occasione di ricerca e riflessione sull’uso di que­sto « linguaggio » per produrre e comunicare sensazioni e emozioni.

Il linguaggio iconico

Si è estrinsecato durante il lavoro collettivo, che ha visto le tre sezioni a realizzare

— tramite il disegno, la pittura, il ritaglio, il collaggio

— le scenografie da usare nei sette quadri.

La sua fruizione ha costituito un momento di gran­de collaborazione e di intensa attività creativa.

Il linguaggio musicale

I sette quadri erano introdotti da brani musicali che il gruppo ha scelto e selezionato in funzione dell’e­sigenza di introdurre nella rappresentazione ulteriori mezzi di scansione ritmico-spaziale, che rappresentassero anche la base di alcuni movimenti pantomimici.

 

La parola

Il gruppo ha deciso di utilizzare i dialoghi per ca­ratterizzare i personaggi, facendo ricorso anche all’adozione del vernacolo romanesco per alcuni di loro.

Il laboratorio teatrale si è concluso con una rappre­sentazione teatrale, a cui hanno seguito alcune repliche per altre classi.

Conclusioni

Ritengo opportuno sviluppare da questa esperien­za alcune riflessioni. Alla base del progetto c’era l’esigenza di interveni­re sul modo in cui F. viveva la realtà circostante. Quindi si rivelava necessario realizzare la separa­zione tra F. e l’ambiente naturale e provocare al contrario un’interazione dell’allievo con un « nuovo ambiente » che lui stesso contribuisse a creare.

Lo strumento del « gioco teatrale » ha fornito all’allievo la possibilità di « inventare una realtà » procu-randogli l’occasione di farla diventare azione nel gruppo e quindi vita.

Va precisato che questo tipo di attività permette al soggetto di sganciarsi dall’ambiente immediato, di produrre significati e di penetrare nel regno dei sim­boli tramite il ruolo che si assume.

Attraverso il gioco di ruolo F. è — per così dire –liberato di sé per riuscire ad essere un altro e quindi è potuto uscire dalla gabbia comportamentale che lo costringeva ad agire sempre nello stesso modo, e ad obbedire a schemi precostituiti.

Con l’occasione avuta di immaginare e rappresen­tare la realtà, egli ha potuto vivere una condizione di distacco dal suo abituale atteggiamento fusionale con l’ambiente e ha intravisto la possibilità di nuo­ve forme di interazione.

D’altronde il « gioco teatrale » come tutti i giochi, e più di tutti, crea un ambiente immaginario liberan­do il soggetto dai « vincoli situazionali ».

Nel gioco della finzione drammatica il bambino, at­tribuendo significati agli oggetti e all’azione, si libe­ra dai condizionamenti del mondo visibile per accedere al mondo dei simboli e delle rappresentazioni.

Un altro aspetto importante che si era intravisto du­rante l’osservazione era il fatto che F. faticava a por­tare a termine ciò che aveva intrapreso e inoltre non accettava di buon grado di uniformarsi ai tempi de­gli altri.

Ma, per l’appunto, il « gioco teatrale » non permet­te al singolo di agire liberamente senza tener conto del gruppo.

Esso è, come tutti i giochi collettivi, un gioco di regole dove la libertà è illusoria. Tutte le azioni, in re­lazione logica tra di loro, sono subordinate ad un progetto comune.

Bisogna accettare la partecipazione degli altri, assuefarsi ai ritmi di tempo diversi dai propri e sopportare a volte di far parte di coloro che in quel momento non partecipano al gioco.

È bene chiarire che il gioco drammatico come il gio­co in genere « opera continue pressioni sul bambino perché egli agisca contro gli impulsi imme­diati, agisca, cioè, sulla linea di maggior resisten­za… perché l’osservanza delle regole della struttu­ra ludica promette un piacere assai maggiore di quello che si prova nel soddisfare un impulso im­mediato ».

Recitare, quindi, è come ogni gioco un momento di grande godimento, si è contenti di parlare, agire, esteriorizzare, inventare, ma principalmente si è felici di poter realizzare tutte queste cose nel pia­cere del « gioco di gruppo ». Il teatro è un campo semantico in cui il gesto, il suono, il colore, la voce assumono un significato particolare promuovendo nel soggetto la capacità di stabilire un nuovo rap­porto tra situazioni del pensiero e situazioni della realtà, vaie a dire favorisce l’apertura di nuovi oriz­zonti all’immaginazione e la scoperta di nuove pos­sibilità creative.

Quanto detto risulta determinante nell’affrontare il problema con soggetti in cui esiste un ritardo nel­l’apprendimento.

Adottare tecniche di insegnamento basate sui ca­nali prioritariamente visivi e ripetitivi non solo non aiuta il soggetto, ma gli preclude la possibilità di ac­cedere al pensiero astratto. Il gioco drammatico, quindi, proprio per la sua peculiarità di essere un gioco che agisce nell’ambito di una situazione men­tale, non visibile, fa leva su motivazioni e bisogni interni che servono a delineare, insieme ad altri fat­tori esterni, quella « zona di sviluppo potenziale »di cui si è già parlato.

Questa esperienza ha rappresentato la realizzazio­ne di un intervento ad hoc, ma ha anche costituito un buon angolo di osservazione per progettare in­terventi futuri.

Da Rivista L’insegnante specializzato 3/90

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