BOURCIER MUCCHIELLI A.
[/pt_text]Il ventesimo secolo sarà stato il secolo della scolarizzazione di massa in gran parte dell’Europa, quanto meno della Europa dell’Ovest. Bella iniziativa, impresa generosa. E ora, alla fine di questo ventesimo secolo, tiriamo le somme. Siamo veramente riusciti a realizzare questa scolarizzazione di massa, questa democratizzazione della scuola?
La risposta è « si » se si fa un’analisi quan-titativa, infatti la maggior parte dei bambini sono scolarizzati, ma la risposta è « no » se si analizzano qualitativamente i risultati. Anche se oggi, molti più bambini rispetto a prima, sanno leggere, bisogna ammettere che non tutti i bambini sanno leggere e scrivere perfettamente. La lettura, in particolar modo durante tutto questo secolo, è stata oggetto di particolare interesse da parte di ricercatori, pedagogisti e genitori, a ragion veduta preoccupati delle « performances » scolastiche dei loro bambini. Naturalmente ciò che ha immediatamente mobilitato la ricerca sono state le difficoltà di apprendi-mento incontrate da alcuni bambini cosiddetti dislessici.
Fino agli anni 60-70 gli studi hanno messo l’accento su questa « patologia » specifica. Dagli anni 70-75 le prospettive si sono evolute e il mondo scolastico viene percepito in maniera diversa. Gli stessi concetti ad esso collegati si trovano ad essere modificati. Quella che era considerata una vera e propria patologia scolastica si è trasformata piano piano in « disfunzionamento scolastico » in seguito alla « banalizzazione » dei problemi scolastici e alla sempre crescente importanza di essi.
Vi propongo di seguire insieme a me il seguente itinerario:
1) un breve quadro storico riguardante i bambini definiti dislessici;
2) una definizione di questa turba molto particolare, definizione che avevo già dato nel libro scritto con mio marito « la dislessia, malattia del secolo », tradotto in Italiano;
3) nella terza parte farò il punto dell’attuale situazione, a partire dal 1975.
- Storia di un concetto
La scolarizzazione di massa decisa in Francia alla fine del diciannovesimo secolo ha inevitabilmente indotto pedagogisti e genitori ad interessarsi sempre più di quei bambini incapaci di imparare a leggere correttamente, e, essendo la lettura alla base della scolarizzazione, incapaci di seguire una normale progressione scolastica. Naturalmente, i genitori trovandosi di fronte ad una « malattia » sconosciuta, si rivolgevano ai medici nel tentativo di curare questo strano disturbo che colpiva anche bambini ap-parentemente intelligenti e normali.
1.1. Concezione organicista
La prima ipotesi formulata fu, dunque, di origine neurologica. Poiché il bambino non soffriva di carenze visibili, doveva necessariamente essere il suo cervello ad essere colpito, e da che cosa? Si pensava che il cervello nel dislessico dovesse presentare delle lesioni corticali. Bisogna sottolineare che questa prima tesi neurologica era stata preceduta sul finire del diciannovesimo secolo dalle ricerche concernenti l’afasia (l’afasia motoria di Broca nel 186I e l’afasia sensoriale di Wernicke nel 1874), ricerche sviluppatesi in seguito alla scoperta del centro del linguaggio alla base della 3a circonvoluzione frontale nell’emisfero sinistro. La lesione di questo centro provoca l’afasia, ciò che all’epoca veniva definita come alessia, non potendo il soggetto né parlare né leggere. Dejerine nel 1892 confermò questa ipotesi, diagnosticando su un paziente affetto da alessia morto a 70 anni, su cui aveva effettuato un’autopsia, delle lesioni corticali nel centro del linguaggio. Una seconda diagnosi identica a questa fu fatta da Hinselwood nel 1917.
I primi a descrivere questa affezione che comincerà a prendere il nome di dislessia nei paesi latini e anglosassoni, sono stati due oculisti inglesi Kerr e Morgan chiamati ad esprimere un loro parere su questi bambini sempre apparentemente normali ma incapaci di imparare a leggere. Ma la dislessia non è l’alessia, infatti i bambini dislessici parlano e capiscono il linguaggio. E quindi, questa concezione di una « cecità verbale congenita » localizzabile sul modello dell’afasia, non regge e verrà poco a poco abbandonata. Tuttavia, questo modo di concepire la dislessia non verrà mai completamente abbandonato e sarà regolarmente ripreso sia da ricercatori americani che europei.
In Francia, ad esempio, il dottor Debray-Ritzen parla sempre di « sofferenza cerebrale minima » nei bambini dislessici. Ciò che si può affermare è che in seguito ad avvenimenti abbastanza traumatici dal punto di vista cerebrale, verificatisi ad esempio durante il parto, o in seguito ad una prematurità o immaturità (bambino nato entro i giusti termini ma di scarso peso), o ancora a causa di itteri gravi insorti dopo la nascita, di epilessie precoci e altri traumi cranici, alcuni bambini possono manifestare una certa sofferenza cerebrale, ma come ricordava nel 1974 l’Americano Critchley, « non si è mai riscontrata alcuna patologia cerebrale in nessun caso di dislessia », come indicano i tracciati encefalografici più recenti. Se gli incidenti prenatali, perinatali e neonatali provocano un danno cerebrale, quest’ultimo comporta soprattutto dei problemi motori: instabilità, impulsività, goffaggine, e le difficoltà in lettura e in scrittura non sono, evidentemente che la conseguenza di queste turbe psicomotorie. Quest’ultima considerazione ci mostra la stretta relazione esistente fra la motricità e l’apprendimento della lettura di cui riparleremo.
In questa prima concezione che viene globalmente definita organicista, esiste anche una seconda spiegazione di tipo genetico. Secondo i suoi sostenitori, le difficoltà di apprendimento della lettura sarebbero inna-te, e quindi di tipo costituzionale e non acquisite. Recentemente alcuni ricercatori hanno preteso addirittura di localizzare il gene responsabile della dislessia; tale gene sarebbe localizzato sul cromosoma 15. Hallgren che è il più tipico rappresentante di questa scuola ha esaminato 112 famiglie ed ha constatato che in 3 famiglie (sulle 112 esaminate) sia il padre che la madre avevano delle difficoltà di lettura, in 90 famiglie tali difficoltà si presentavano in uno dei due genitori e in 19 famiglie né il padre né la madre avevano problemi di lettura. Cosa si può concludere da tutto ciò? Se da una parte dobbiamo riconoscere che nessuna eminente personalità della scienza, neanche i genetisti, possono tener conto dell’innato e dell’acquisto nell’uomo, dall’altra dobbiamo riconoscere che l’ambiente familiare senza rendersene conto può essere responsabile di problemi di lettura. Ad esempio, e ne riparleremo più avanti, i genitori che non spingono i loro figli a leggere o al contrario quelli che li incitano troppo possono provocare dei blocchi. Dunque, neanche questa tesi di tipo genetico può essere accettata.
1.2. La concezione strumentale
In un secondo tempo, i ricercatori, tralasciando l’innato e l’acquisito, si sono interessati a quegli elementi su cui si basa la lettura; tali elementi sono: vedere, sentire, muoversi e agire.
Si trattava di una deficienza sensoriale? Molto presto ci si è accorti che non si poteva ritenere responsabile delle difficoltà di lettura la funzione sensoriale in senso stretto. I bambini dislessici vedevano e sentivano ma come?
A questo proposito si è parlato di discriminazioni visive e uditive difettose poiché si riscontravano delle confusioni fra forme vicine o fra suoni vicini. Il maggior progresso, in questo senso, è consistito nel considerare il soggetto non più come soggetto in se stesso, isolato cioè dal suo contesto ma come inserito nel suo spazio e nel suo tempo. Ed è stato possibile realizzare questo fondamentale passo in avanti grazie ad una fase intermedia, quella degli studi sui mancini. Per lungo tempo; l’essere mancini è stato considerato come una tara, e di conseguenza, abbiamo sempre ostacolato i mancini. Essi imparavano a leggere e a scrivere con la mano destra e, appare il nostro celebre Michelangelo, i mancini, (salvo i casi in cui il «genio» prevaleva), essendo in minoranza, dovevano adattarsi alla maggioranza delle persone che usavano la destra. Il ventesimo secolo, che è stato che il secolo degli studi intrapresi da Freud sulla «oppressione», ha ben presto lanciato un grido d’allarme: « non bisogna assolutamente contrariare i bambini »!
Si pensò, allora, che impedire ai mancini di usare la sinistra fosse fonte e causa di tutti i mali, come ad esempio l’enuresi, l’anoressia, l’instabilità e, ovviamente, la dislessia. Dunque non bisognava più contrariare i mancini. Da questo momento in poi abbiamo vissuto una fase di esagerazione e di eccesso nell’individuazione di bambini mancini, e mi ricordo di aver esaminato negli anni 60 un caso di una bimba di otto anni, completamente affetta da disgrafia, a cui era stato impedito l’uso naturale della mano destra, nell’insensata preoccupazione di individuare i bambini mancini.
Bastava, dunque, che un bambino di scuola materna, senza dubbio non ancora ben lateralizzato, cioè né veramente mancino, né veramente destro, prendesse una matita con la mano sinistra perché fosse subito considerato mancino e incoraggiato a scrivere con la mano sinistra. L’eccesso è nefasto in tutto, il problema dei mancini è molto complesso e non è questa la sede più giusta per affrontarlo; mi limiterò quindi a sottolineare, a proposito di questa « contrarietà », che anche quando viene permesso loro di scrivere con la mano sinistra, i mancini vengono comunque ostacolati, poiché tutto viene realizzato dai destri peri destri. Pensate, ad esempio, ai posti in cui vengono collocati gli interruttori per l’elettricità, o al posto del cambio nelle automobili, o alla direzione della scrittura latina da noi utilizzata e cioè da sinistra a destra. Ritornerò domani su questo problema con gli alunni della scuola di Psicomotricità con lo scopo di descrivere gli aspetti pratici della preparazione alla scrittura. In ogni modo, a mio avviso, il problema si situa a livello più generale a proposito dei dislessici, poiché nella vita normale di tutti i giorni, si utilizzano sempre entrambe le mani.
Al di là del problema dei mancini, negli anni 50 i ricercatori cominciarono ad esaminare il bambino « in situazione » e non più isolato dal suo contesto, e, poiché la lettura viene definita come la capacità di riconoscere dei suoni e dei segni orientati sia nello spazio che nel tempo, il loro interesse si spostò verso quegli elementi che potremmo definire come l’insieme dei determinanti della Psicomotricità: « lo schema corporeo o la rappresentazione della propria immagine, la lateralizzazione, l’orientamento nello spazio-tempo e la strutturazione nello spazio-tempo ». Se è vero che alcuni dislessici sono ben lateratizzati e ben orientati, bisogna pur riconoscere che la maggior parte dei bambini in difficoltà ha dei problemi a situarsi correttamente nello spazio-tempo, e di questo avremo modo di parlare più avanti.
1.3.
Parallelamente alla tesi secondo cui una deficienza sensoriale era responsabile della dislessia, si sviluppò ben presto un’altra tesi che attribuiva ad una deficienza verbale l’origine della dislessia. Secondo quest’ultima tedi dislessici erano bambini che parlavano male, affetti da un ritardo del linguaggio, o che in passato avevano sofferto di ritardo del linguaggio. In Francia, Suzanne Borel-Maisonny, fautrice dell’ortofonia, mostrò la relazione fra le due funzioni, la funzione verbale e la funzione lessica. Se è vero che bisogna saper parlare per imparare a leggere e che un parlatore mediocre non diventerà mai un buon lettore, è altrettanto vero che alcuni bambini dislessici parlano del tutto correttamente e quindi la spiegazione della deficienza verbale non può essere considerata come spiegazione unica e sufficiente. A partire dagli anni 70 il dibattito sul linguaggio è stato rilanciato con la nozione di handicap socio-linguistico in relazione con l’handicap socio-culturale. Ma prima di parlarne vorrei citare un’altra corrente precedente a questa.
1.4. La concezione psico-affettiva
Senza dubbio, gli psicoanalisti sono stati i primi ad associare te turbe dell’apprendimento in lettura e le turbe affettive. Leggere significa dare del senso, a volte significa anticipare e fare delle ipotesi sul senso di ciò che segue, significa quindi rischiare, impegnarsi, comunicare, entrare in un’attività da « grandi ». Leggere, infine, significa anche accettare l’arbitrario, le regole, le convenzioni della lettura, e quindi attraverso l’atto della lettura viene messa in gioco tutta l’attività di socializzazione. Francoise Dolto, la mia guida in psicoanalisi, privilegiava senza dubbio questo tipo di spiegazione. Le turbe affettive, infatti, se non sono sempre la causa della dislessia, diventano la conseguenze dei tentativi infruttuosi di apprendimento della lettura. Il quadro a questo punto si complica.
1.5.
Più recentemente i sociologi hanno lanciato il concetto di handicap socio-culturale e socio-economico, e questo ha ridato nuovo slancio alle ricerche riguardanti le difficoltà di lettura (il nostro capogruppo è Bordieu). I fattori che vengono citati più spesso sono cinque:
1) la diversa qualità del livello di lingua utilizzato dai genitori (cfr. B. Bemstein codice elaborato e codice ristretto);
2) la scarsità dell’aiuto scolastico soprattutto nei compiti a casa che non vengono controllati e commentati dai genitori, come pure la rarità dei suggerimenti di
questi ultimi ai figli riguardo al lavoro scolastico;
3) il livello di aspirazione al successo del bambino meno educato, e la quasi totale mancanza di dialogo con lui;
4) la minor quantità di giocattoli e di libri, quando attualmente è notorio il valore educativo dei giochi e dei giocattoli;
5) il sistema educativo più repressivo tendente quindi a creare bambini più dipendenti.
Alcuni di questi fattori sono giusti, altri più discutibili, in particolar modo le aspettative riguardanti il successo scolastico. Tutti i genitori, infatti vorrebbero vedere i loro figli avere successo in quello che fanno, solo che alcuni sono più in grado di altri di aiutarli. In generale, i bambini che hanno difficoltà scolastiche sono provenienti per la maggior parte da classi « svantaggiate », ma è anche vero che molti bambini provenienti da famiglie povere imparano a leggere, mentre altri nati in ambienti agiati rivelano essere dislessici. La scuola è la grande colpevole di tutto ciò?
1.6, Le accuse alla scuola
Maria Montessori è stata promotrice, in questa materia di riforme eccellenti, aprendo a Roma nel 1901 la prima « casa dei bambini ». Purtroppo, però, il suo lavoro non ha risolto tutti i problemi. Bisogna, quindi, incriminare i metodi di apprendimento? Le ricerche hanno dimostrato che tali metodi non sono la causa delle difficoltà. Quanto al tasso di successo scolastico, il fattore che viene generalmente considerato fondamentale è quello riguardante sia la qualità della relazione maestro-alunno, sia il clima che l’insegnante instaura nella sua classe. E su questo argomento sono stati realizzati studi eccellenti. Per esempio, è ben nota l’importante delle rappresentazioni dell’insegnante sul successo dei suoi alunni (effetto predittivo o effetto Pigmaglione). La scuola è stata, dunque, abbondantemente chiamata in causa durante tutto il secolo dai sostenitori della scuola attiva e cooperativa. L’abbiamo accusata di essere tagliata fuori dalla vita, di essere tradizionalista, di utilizzare un codice elaborato ignorato dai bambini nati in ambienti « svantaggiati ». Ma la scuola non è l’unica responsabile. Attualmente essa è afflitta da problemi gravi che vanno ampiamente al di là della dislessia, quali le aggressioni e le molteplici violenze di cui parlerò nella parte finale di questo seminario.
Riassumendo, cosa possiamo ritenere da questo breve profilo del 20° secolo?
- La lista delle presunte cause successive responsabili della dislessia corrisponde stranamente all’insieme delle condizioni necessarie per imparare a leggere e quindi: un cervello senza lesioni gravi che permetta lo sviluppo e il funzionamento del pensiero, una vista e un udito normali, una lateralizzazione stabile, un orientamento nello spazio-tempo soddisfacente, un livello di linguaggio tale da permettere la funzione di espressione e di comunicazione, e infine la voglia di imparare e una socializzazione corretta che comporta l’accettazione e il rispetto delle regole.
- Nessuno di questi fattori può da solo essere causa della dislessia. Ma è certo che ognuno di essi, al di là di una certa soglia, può impedire al bambino di imparare a leggere, cosi come un grave ritardo del linguaggio può bloccare l’accesso alla lettura, ma, a mio avviso, la vera e propria dislessia è una turba specifica che tenterò di descrivervi. I bambini dislessici, intendo dire quelli veramente dislessici, esistono. Ne ho incontrati e ne ho anche curati molti.
- Approccio fenomenologico dell’universo dei dislessici o, come amo definirlo, l’universo dell’ambiguità
Al fine di essere chiara, utilizzerò un’analogia descrivendovi l’universo del turista che per la prima volta arriva in un paese sconosciuto. Ritengo, infatti che gli sforzi di un turista per orientarsi e riconoscersi in una
città nuova siano abbastanza simili agli sforzi dei dislessici. A tutti noi è sicuramente capitato di viaggiare, di arrivare un giorno in una città mai vista prima, di essersi sistemati in un albergo, e di essere poi usciti, come si suol dire, per « un giro di ricognizione ». Le impressioni o meglio le sensazioni vissute in una nuova città il primo giorno, giorno in cui si viene quasi catapultati in un mondo diverso, non sono le stesse che si provano otto giorni dopo quando ormai si è imparato a conoscere i luoghi. Il primo giorno si verifica una sorta di diso-rientamento; rientrando in albergo la prima sera si fanno delle riflessioni di questo tipo: « ma pensa, avevo creduto che la torre fosse da questa parte …. la chiesa ora è davanti a noi, e allora non siamo nella giusta direzione, l’hotel è dietro di noi… ».
Il giorno dopo ci si ripromette di essere più precisi e più attenti nell’individuare determinati punti di riferimento, e d’altronde, le cose, le strade, cominciano già ad avere un’aria più familiare e ad essere conosciute un po’ meglio. Ed ecco che già il terzo giorno, usciamo e abbiamo più fiducia in noi stessi, il passo è più sicuro, non abbiamo più bisogno di riflettere se per andare verso un certo parco dobbiamo « svoltare » a destra o a sinistra…
Dopo otto giorni ci si muove quasi ad occhi chiusi. Che cosa è successo? Perché questa città misteriosa e piena di trappole è diventata familiare e accogliente? Dopo una prima fase di disorientamento abbiamo stabilito determinati punti di riferimento e il saper riconoscere tali punti di riferimento ci ha nello stesso tempo aiutato a « riconoscerci », ha reso stabile e sicura questa capacità di « riconoscere ». A questo punto, non siamo più nella, fase « dell’avanscoperta », anzi ci muoviamo in un paese conosciuto, quasi conquistato, poiché si tratta di una vera e propria conquista: la conquista dello spazio. Ci troviamo di nuovo in un mondo orientato, siamo ora in grado di dominare quello spazio nuovo, e questo elimina quel senso di inquietudine e di insicurezza. Come è stato possibile tutto ciò?
Almeno due attori ci sono stati di grande aiuto:
1) Noi stessi, e con questo intendo dire quel punto stabile che ognuno di noi rappresenta a partire dal quale si organizza il mondo; questo equivale a dire che se io sono in un determinato punto, davanti a me c’è una. certa cosa, e così via a destra e a sinistra. Se mi giro, se avanzo, posso prevedere cosa accadrà. Ad esempio se io esco e cammino, non faccio altro che distribuire e disporre le cose sempre rispetto a me stesso. Nella città di cui si parlava prima, le cose si sono trovate subito organizzate rispetto a noi stessi. Ci siamo cioè serviti di taluni punti di riferimento sia nello spazio che nel tempo (dall’albergo a tale piazza ci sono cinque minuti a piedi) e abbiamo potuto organizzare questi punti di riferimento partendo da noi stessi.
2) Il linguaggio, che ci è stato senz’altro di aiuto, e con linguaggio intendo tutto ciò che fa parte della comunicazione sia scritta che orale: i nomi delle strade, i manifesti, i cartelli, ma anche le informazioni che si chiedono ai passanti quando si pensa di essersi persi (con un senso di disorientamento ancora maggiore in un paese dove si parla un’altra lingua), e infine le parole, che sono anch’esse punti di riferimento di non minore importanza. Dovrei forse aggiungere un terzo fattore, e cioè quella capacità di comunicare che non è fatta necessariamente da parole, poiché si tratta di una comunicazione realizzabile anche in un paese straniero. Mi riferisco al sorriso delle persone, al fatto di sentirsi vivere come loro, di accettarle, di scoprirle con una certa predisposizione alla simpatia poiché si è in vacanza; ma mi riferisco anche a quel quartiere dove c’è quel ristorante dove si è mangiato bene, o dove si stava bene …. o « alla strada in cui si è comprato quel souvenir così carino » ecc.., sono, questi ultimi, dei punti di riferimento più affettivi, ma che ci saranno utili per dominare, una cosa dopo l’altra, tutto lo spazio di quella città.
Se mi sono particolarmente dilungata su questa conquista progressiva dello spazio è perché volevo arrivare a questo punto: immaginate che l’universo del primo giorno che per noi sparisce piano piano, invece di sparire persista. Immaginate che esso continui a essere « permanentemente » il nostro universo. In rai caso, pur mantenendo la ragione, la logica, l’intelligenza, discorsi ancora coerenti, cl mancherebbe, comunque, l’orientamento nello spazio e nel tempo, e soprattutto ci mancherebbe quel minimo di fiducia in noi stessi, necessaria in ogni nostro comportamento. L’osservazione di numerosi bambini dislessici ci ha indotto a pensare che il loro mondo è caratterizzato proprio da un universo di questo genere; il loro è il mondo dell’ambiguità poiché non si è mai del tutto sicuri delle direzioni, delle posizioni, dei sensi, dei simboli e delle parole e, al limite, dei valori.
- Caratteristiche di questo universo
Ambiguità dei valori, difficoltà a rappresentarsi immediatamente ciò che bisogna fare e ciò che bisogna evitare. I valori non hanno né senso positivo né negativo e si presentano come privi di valenza. Muoversi verso tali valori più avere successivamente un’importanza di attrazione o di repulsione. Se questi due elementi sono presenti contemporaneamente, ne risulterà un movimento vacillante e inibito da due forze contrapposte.
Ambiguità delle distanze. Il rapporto di distanza esistente fra l’Io e le cose è relativamente stabile (non è così nelle psicosi), ma i rapporti spaziali delle cose fra loro sono mutevoli e poco chiari. Ciò comporta una certa difficoltà nella valutazione delle distanze e delle reciproche posizioni degli oggetti. Ambiguità delle posizioni relative degli oggetti fra loro e degli oggetti rispetto a se stessi. Il soggetto cerca o raggiunge gli oggetti in una certa direzione, e questi ultimi appaiono in un’altra direzione, ragion per cui, l’azione risulta incerta e si basa sull’attesa o sull’esitazione. Essa non può dominare il tempo, né essere un’azione proiettata a lungo termine. Il soggetto è costretto, quindi, ad avanzare passo dopo passo.
Ambiguità delle forme. Anche le forme, persino quelle semplici, vengono percepite relativamente fino ad un certo punto ma il loro orientamento è instabile e, di conseguenza, anche le loro direzioni. Il riconoscimento delle forme è reso difficile, se non impossibile, a causa dell’ambiguità delle direzioni, li soggetto si trova fra due poli: da una parte la necessità di analizzare che lo immobilizza sul dettaglio ambiguo e lo priva della percezione della forma generale, dall’altra la percezione della forma globale che provoca dei falsi riconoscimenti analogici che sono la conseguenza delle divergenze dei dettagli.
Ambiguità dei significati. Le forme hanno un senso che costituisce il supporto dei loro significati. Se la forma è ambigua, necessariamente anche il suo significato lo diventerà.
Insicurezza dell’io. Di fronte a questo universo senza stabilità, I’io si struttura in conformità a questa insicurezza, a questa aspettativa, a questa instabilità dei valori e dei gesti. Egli aspetta la guida, il filo conduttore esterno che lo aiuterà a raggiungere i suoi obiettivi. Perde fiducia in se stesso e si rifugia a volte in gesti automatici (i soli che gli consentono di avere una certa sicurezza).
Ricerca attenta di riferimenti. Ricerca incessante di riferimenti al fine di garantire un certo comportamento motorie e intellettivo.
Aderenza alte percezioni. Il soggetto che agisce nell’universo dell’ambiguità ha tendenza ad avvicinarsi alle cose per evitare di sbagliare. Se prendesse distanza da esse, sarebbe smarrito in direzioni multiple e contraddittorie. Ne consegue una sorta di miopia intellettiva.
Ambivalenza affettiva, perché il soggetto è continuamente costretto ad operare una
scelta (e quindi in perenne stato di insicurezza) fra dei valori ambigui e dei significati mutevoli. Questo stato lo rende affettivamente instabile.
Goffaggine. L’azione è maldestra poiché viene realizzata poco a poco senza possibilità di dominare lo spazio e il tempo. Il gesto è impacciato poiché l’orientamento è sempre ambiguo. Il ritmo dell’azione è perturbato e il suo svolgimento non è omogeneo. Nello stesso modo anche la comunicazione è disagiata e impacciata poiché il soggetto è insicuro sulle parole, sui sensi, sui valori.
La lettura è l’elemento che rivela questo universo dell’ambiguità, questa maniera di vivere nel mondo
La lettura, l’ho già detto, la capacità di riconoscere dei suoni e dei segni orientati nello spazio e nel tempo, e, come l’ortografia, essa presume la possibilità di analizzare correttamente le forme nello spazio, dalle più semplici alle più complesse, senza dimenticare che queste forme sono sempre orientate. È possibile analizzare un contenuto spaziale solo a condizione di restare orientati. Dobbiamo, cioè, poterci « ritrovare », dominare la situazione, senza avvicinarcisi troppo, mantenendo la distanza necessaria a tener conto di tutti gli aspetti, di tutti i dati della situazione. Astrarre è prima di tutto « astrarsi », cioè staccarsi, mettersi a distanza, smettere di coinvolgersi affettiva-mente, considerarsi « da lontano ». Astrarre è anche superare il livello del concreto, essere capaci di situarsi a un certo punto di vista, cosa che implica non solo il dominio della distanza e quindi dello spazio, ma anche la valutazione della « giusta distanza » rispetto al testo (o all’esperienza) una specie di valutazione intellettiva di questa distanza.
La giusta prospettiva (che vuol dire giusta distanza e giusto punto di vista) suppone la capacità di cambiare orientamento e di staccarsi dal fascino di una direzione privilegiata, per prendere altre direzioni e scoprire altre prospettive.
Cambiare dunque orientamento senza starne disorientati, non temere di cambiare, superare il timore di un disorientamento, potersi continuamente riorientare rispetto a riferimenti variabili.., queste sono le operazioni permanenti del pensiero simbolico.
Che cosa succede, invece, nel dislessico? Egli non può mettersi a distanza dal concreto, non è quindi in grado di dominarlo. Non ha la padronanza dello spazio e non ha la possibilità di trovare la giusta distanza, « il punto di vista » corretto. Allo stesso modo egli non può cambiare né il punto di vista, né l’orientamento senza restare disorientato. Bisognerebbe, invece, che egli fosse in grado di riorientarsi in permanenza secondo dei riferimenti variabili; il suo sistema di riferimento non è stabile e non può quindi arricchirsi delle esperienze del passato. li dislessico è dunque incapace di analizzare a livello dello spazio-tempo. Due sono gli atteggiamenti tipici del dislessico di fronte alla lettura: o egli globalizza a partire da una percezione « globale » e allora indovina, accosta, ripete, anticipa e tutto ciò si traduce con delle lettere aggiunte o omesse, con delle parole deformate, delle lettere invertite; …Perché da questa percezione globalizzante viene fuori un risultato sommario e imperfetto in cui le lettere si trovano a volte in un posto a volte in un altro (i dislessici, infatti, non fanno sempre lo stesso tipo di confusione); oppure, al contrario, non potendo percepire un insieme, egli si va ad invischiare nei dettagli, fa delle separazioni maldestre e l’effetto che ne consegue è lo stesso: alcuni elementi vengono dimenticati o aggiunti e le parole vengono deformate. Per concludere questa seconda parte, direi che la dislessia in senso stretto è la manifestazione di uno squilibrio nella relazione fra l’Io e l’universo, squilibrio che ha intaccato selettivamente la sfera dell’espressione e della comunicazione. La relazione fra l’Io e il suo universo si è organizzata in modo ambiguo. Qual è il motivo di questa ambiguità? Le sue cause sono difficilmente identificabili poiché nel periodo che va dal concepimento ai tre anni di età si costruiscono le basi di tutte le funzioni psicomotorie di un bambino: funzione linguistica, intellettiva, affettiva e sociale. Noi non possiamo far altro che rivelare le conseguenze di questa ambiguità. Tuttavia voglio darvi un esempio, poiché spesso ho avuto a che fare con questo tipo di problema quando lavoravo con bambini dislessici negli anni 60-70. Molti di loro, infatti, anche tra i 6-7 anni di età, erano scarsamente lateralizzati, cioè né veramente mancini né veramente destri. In altre parole, per orientarsi nello spazio essi non disponevano di alcun riferimento stabile, riferimento che è costituito dalla destra per i destri e dalla sinistra peri mancini. Ora, come si stabilizza la lateralizzazione? Si tratta di uno sviluppo neurologico e nello stesso tempo di un fattore psicologico che permette o meno la realizzazione di tale sviluppo. Riguardo a questo argomento bisogna rappresentarsi il bambino, sin da quando inizia a camminare, come attorniato dai genitori, entrambi in possesso di potenziali affettivi complementari: da una parte la madre, con tutto ciò che rappresenta di rassicurante, tenero, caldo, dall’altra il padre simbolo della forza, dell’autorità, della vita esterna, del mondo degli adulti. Queste due figure (paterna e materna) costituiscono i primi riferimenti per il bambino, le prime basi del suo orientamento nel suo universo. Senza di loro egli è perduto, con loro tutto ritorna al suo posto, tutto si riorganizza e riacquista un significato. Quindi, se qualcosa non funziona in questo rapporto, per ragioni di assenza o di conflitto o per qualsiasi altra ragione, se l’instabilità e l’ambiguità intervengono come elemento di disturbo nelle relazioni del bambino, questi rischia di esitare sempre fra la destra e la sinistra. Tutti noi ben sappiamo che la lettura è orientata, si legge da sinistra a destra, tenendo conto di tutte le righe e di tutte le parole.
Ogni parola poi ha, di per se stessa, una forma orientata, come pure ogni lettera b non è la d)…
Come ritrovarsi, quindi, se non ci sono riferimenti stabili o se gli avvenimenti che servono da punti di riferimento sono vissuti con disagio dal bambino? Bisognerebbe affrontare e precisare molti altri aspetti a proposito dei bambini dislessici.., vi rimando, quindi, al mio libro sulla dislessia scritto negli anni 1962-63, quando era possibile distinguere questo tipo di bambini e soprattutto questo genere di patologie. Oggi non è più così. Molti bambini attualmente hanno delle difficoltà scolastiche senza per questo essere dislessici in senso stretto. Non si parla più, dunque, in termini di patologie (anche se i veri dislessici esistono sempre) perché visto il gran numero di bambini in difficoltà, il fenomeno si è, in un certo senso, banalizzato e oggi si parla piuttosto di disfunzionamento. Cosa è successo negli ultimi 25 anni?
- L’attualità
Attualmente le ricerche sono sistematiche. Si studiano degli insiemi e l’attenzione viene portata soprattutto sulle interazioni in famiglia, in classe, nella società, sulle interazioni fra le istituzioni e le persone appartenenti a tali istituzioni. Non si tratta, quindi, più di fare un’opposizione fra ciò che è normale e ciò che è patologico. Si tratta piuttosto di descrivere ciò che si vive e come si vive. Si fa l’etnologia della scuola e della lettura. La società Europea, senza essere ancora diventata multirazziale, deve comunque affrontare il problema costituito dall’elevato tasso di immigrati. L’integrazione dei « nuovi arrivati » non è una novità in Europa, quel che è nuovo, invece, è l’importanza di tale movimento e in particolar modo il fatto (e in ogni caso questo è vero in Francia) che questa integrazione dei « nuovi » si aggiunge, accrescendolo, al movimento di integrazione generale. La scuola ha l’obbligo di integrare tutti coloro che ieri ne erano esclusi. Mi riferisco, ad esempio, agli handicappati di ogni tipo, ai dislessici ai bambini che non sentono bene, ai soggetti con problemi di vista, ai caratteriali ecc.
Alcuni insegnanti imparano la lingua degli zingari, altri imparano l’arabo, altri ancora il codice dei segni dei non udenti… Ma non tutti lo fanno, e questo crea, naturalmente, delle grandi disparità a livello della competenza e della esperienza degli insegnanti. Da questa situazione si creano nuove ingiustizie peri bambini che vengono educati in modo molto diverso, quando invece la scuola dovrebbe avere il compito di diminuire le ingiustizie. Purtroppo non è così! La scuola riproduce fedelmente il funzionamento della società. Vorrei, a questo punto, segnalarvi due elementi particolarmente significativi per caratterizzare lo stato attuale delle cose.
3.1. La decadenza della società industriale
Senza voler cadere nel più banale catastrofismo, inutile e sterile, vorrei comunque ci-tarvi alcune delle conseguenze prodotte dal mutamento della nostra società.
Il crollo (ancora relativo) dei sistemi tradizionali e dei gruppi di sostegno come la famiglia, ha comportato:
1) la perdita di solidarietà (tale affermazione è diventata banale), come pure la perdita di riferimenti rassicurante (familiari, sociali, economici, politici).
2) l’individualismo, che di per se stesso avrebbe potuto essere molto positivo, poiché può portare all’autonomia, per il momento ha prodotto, ed è il suo effetto più evidente, soltanto un sentimento di solitudine.
3) il lavoro delle donne, che è indubbiamente un progresso poiché permette una maggiore uguaglianza fra i sessi, non riesce, nonostante ciò, ad essere gestito in maniera positiva dalla società.
4) il divorzio è ormai cosa di ordinaria amministrazione, mentre aumenta il numero delle famiglie composte da un solo genitore. Quest’ultimo fenomeno, per il momento ugualmente mal gestito, ha creato, secondo gli insegnanti, bambini sognatori, insicuri e fragili. A questo si deve aggiungere un aumento della solitudine dovuto al fatto che i nonni non vivono più con i figli e i nipoti.
5) la disillusione del mondo attuale, o volendo usare una bella espressione dei filosofi, « il distacco dall’universo magico », il crollo di certe convinzioni altamente rassicuranti, tutto ciò provoca grande instabilità e insicurezza.
6) il crollo di alcuni valori, e il fatto di non aver saputo recepire nella giusta maniera il progresso, ha creato un’attualità difficile, fatta di tanta sofferenza. Prendiamo come esempio il rapporto con l’autorità. Abolire l’autoritarismo è di per se una cosa più che positiva. Insegnare al bambino a valutare da solo determinate cose, aiutarlo a sviluppare un miglior spirito critico, a staccarsi dalla dipendenza all’adulto per acquisire una vera e propria autonomia, sono degli obiettivi educa-zionali incontestabili. Malauguratamente il nostro secolo ha confuso libertà e lassismo. Libertà non vuol dire assenza di impegno. Essa si crea e si ricrea ogni giorno, persino in ogni momento, semplicemente applicando il principio della responsabilità. Nella critica benefica alle eccessive coercizioni, alle ipocrisie e alle dipendenze che caratterizzano i secoli precedenti, abbiamo, senza dubbio, superato il limite (principio del bilanciere). Bisogna, a questo punto, trovare dei solidi sostegni nell’individuo stesso e ridare rigore e significato alle sue azioni. Comunque sia, ne riparleremo. Rendersi conto di essere in un periodo di completa trasformazione può servire a non aggravare ulteriormente la situazione.
3.2. La scolarizzazione di massa e la sua pseudo-realizzazione
Anche riguardo a questo argomento tutto è partito da un principio eccellente, la cui validità va sicuramente preservata: la scuola gratuita e obbligatoria. Non facciamoci tentare, come alcuni, dal regresso e dal ritorno ad antiche prassi. Riaffermiamo, ora più che mai, il principio della scuola per tutti. E se, dal punto di vista quantitativo, l’Europa ha nell’insieme vinto questa scommessa, non è così dal punto di vista qualitativo. Voglio ancora una volta darvi qualche notizia storica per spiegarvi cosa è successo in Francia. Mi scuso poiché non conosco bene la storia della scuola italiana, ma credo comunque che vi siano molte similitudini con la Francia. Prima che fosse realizzata la democratizzazione della scuola, in Francia esistevano due tipi paralleli di formazione scolastica: da una pare i licei e i « colleges » cioè il biennio degli istituti secondari entrambi riservati ad una « élite» sociale, in cui si studiavano materie umanistiche, comprese le lingue antiche, dall’altra un insegnamento primario che arrivava fino al corso superiore della scuola elementare; al termine di questo insegnamento primario, (e cioè prima all’età di 12 anni e poi spostato ai 14 anni) si poteva ottenere un certificato di studi. Dopo la seconda guerra mondiale fu creato il « biennio superiore unico », pensando, in questo modo di democratizzare la scuola. Ma in realtà che cosa avvenne? Il biennio unico impose, a bambino fino ad allora destinati soltanto a un’istruzione primaria, delle metodologie di studio, che inventate per una minoranza di alunni che frequentavano gli studi secondari, implicavano una forte trasmissione culturale da parte della famiglia.
Gli apprendimenti scolastici del biennio supponevano, infatti, delle referenze acquisite fuori dalla scuola: che soltanto i bambini dell’élite sociale potevano possedere: ad esempio, l’uso estetico e ludico dei libri, l’abitudine a discutere e riflettere, un vocabolario ricco, l’accesso frequente alle biblioteche di famiglia, una certa familiarità con la lettura. I bambini che avevano frequentato la scuola elementare prima di allora e ai quali venivano imposti al biennio degli studi concepiti per altri, arrivavano all’istituto superiore con spirito diverso e in un ambito di apprendimento diverso.
Quali erano le caratteristiche dell’ambito e dello spirito .dell’insegnamento elementare? Prima di tutto vi era l’apprendimento della lettura attraverso la decifrazione delle sillabe (b-a-ba), poi l’apprendimento della lettura vera e propria, sui testi, insegnando agli alunni il tono, il ritmo, la pronuncia. I testi venivano ampiamente commentati dai maestri che spiegavano le parole lette dando un significato pragmatico (morale della favola, lezione del pezzo scelto, o lezione di cose ecc.). Molti elementi memorizzati, molti apprendimenti a memoria di liste, come quelle dei dipartimenti. Era fuori questione lavorare su un testo, sulla comprensione di esso inserendovi dei riferimenti tratti da altre letture. Dieci anni dopo la realizzazione del « biennio unico », elemento base della democratizzazione e della scolarizzazione di massa, cioè negli anni 70, si comincia a constatare tristemente l’insuccesso di questo tipo di riforma.
Insuccesso dovuto, come ho già detto, all’applicazione di metodi di lavoro adatti a convenienti ad una minoranza di persone e non a tutti. Secondo alcuni autori, sono stati in particolar modo gli insegnanti di lettere che, senza volerlo, hanno largamente contribuito a questo insuccesso, continuando ad utilizzare la forma d’insegnamento del secondario, insegnamento basato sui refe-renti culturali delle élites, aspettandosi da tutti i bambini, persino esigendolo, un certo tipo di attitudini implicite riguardo al sapere, attitudini forgiate unicamente dall’ambiente extra-scolastico, soprattutto dalla famiglia. Modi di essere, di pensare, di parlare. In altri termini, le conoscenze formali, il sapere scientifico e umanistico classico non hanno potuto essere trasmessi a tutti gli alunni poiché oltre agli elementi nozionistici comunicati dagli insegnanti, essi necessitavano di attitudini fondamentali di analisi, una certa lettura preliminare del mondo, un modo di pensare e un linguaggio che non tutti i bambini di allora possedevano. I sociologi parlano addirittura di violenza simbolica quando gli insegnanti vengono trasmessi in modo forzato, inadeguato e del tutto estraneo ai bambini appartenenti a classi « svantaggiate ». Essi attribuiscono l’insuccesso scolastico di questi bambini e una « resistenza » che essi opporrebbero a tale violenza e ritengono che sia la scuola, con i suoi metodi e con i suoi programmi a impedire ai ragazzi di raggiungere ciò che Piaget chiama il periodo formale del funzionamento intellettivo o attitudine speculativa che, è la sola cosa che permette una vera e propria assimilazione delle conoscenze. Da allora siamo andati di riforma in riforma e all’insuccesso iniziale si è aggiunto attualmente il problema dell’integrazione degli immigrati… Poveri insegnanti! La scuola continua così a riprodurre le ineguaglianze sociali quando, invece avrebbe dovuto eliminarle. Essa non è ancora riuscita a capire come agire per ottenere integrazione e democratizzazione: essa è in crisi.
Prendiamo un altro argomento sempre inerente alla scuola: la scuola « parallela », cioè la televisione. Le tecniche audiovisive hanno certamente apportato dei progressi incontestabili, ma non abbiamo saputo farne buon uso e siamo caduti nell’eccesso. I bambini la guardano troppo (la sera ma alcuni persino la mattina), senza discernimento. Si stancano e leggono meno. Ricevere le immagini è più facile che doversi impegnare a leggere.
Conclusione
Più che mai la scuola deve essere una scuola di vita. È innegabile che essa sia luogo di trasmissione delle conoscenze ma soprattutto deve essere luogo in cui vengono tra-smessi gli insegnamenti di base; imparare ad apprendere, ad amare tali apprendimenti per poter, poi, ad esempio, continuare a leggere anche dopo la scuola, per potersi documentare e restare aperti alle novità, una sorta di formazione continua che può aiutare l’individuo anche ad un eventuale cambio di professione. Stiamo vivendo un periodo difficile, ma c’è mai stato un periodo facile su questa terra? Ho cominciato parlandovi dell’universo dell’ambiguità che è caratteristico dell’universo intimo dei dislessici, potrei concludere dicendo che tale universo è generalizzabile a tutta la società. Stiamo vivendo un’ambiguità sociale dovuta al fatto che abbiamo perso i vecchi punti di riferimento, sostituendoli con altri attuali ma vaghi.
Traduzione dal testo originale francese: Lauta Rautiis
Da Rivista L’insegnante specializzato, 3/94
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