Prismograf. Una pedagogia clinica per educare al segno grafico
Magi Editore Prefazione
L’uomo è stato educato a lasciare tracce segnico-grafiche in tempi sicuramente lontani, se possiamo leggere che già 3000 anni a.e. gli scribi insegnavano ai bambini di dieci anni come realizzarle; una padronanza che acquisivano a forza di copiature e di punizioni corporali. Da quei tempi così lontani a oggi in molti si sono impegna ti a studiare e sperimentare le modalità educative per favorire l’apprendimento dell’arte dei segni. Le abilità a lasciare traccia sono state incentivate utilizzando via via nel tempo superfici diverse su cui tradurre segni pittorico-grafo-figurativi (tavolette di cera, papiri, pergamene, palinsesti, carta bambagina), avvalendosi di strumenti traccianti come scalpelli, bulini, pennelli, stilo, cannucce di legno, e altri quali i calami, le penne d’oca o metalliche, che necessitano di inchiostri. Tante opportunità che hanno permesso di acquisire abilità nel buon uso degli strumenti traccianti e di esp1i mersi con il disegno e la scrittura, nel rispetto di regole e attenzioni da osservare, in ordine ai movimenti richiesti a mani e dita in mutuo rapporto fra loro.
L’obiettivo è stato comunque sempre lo stesso, ossia: sciogliere la mano per renderla adatta, abile, energica, spedita e automatica mente sicura, rinfrancare i movimenti, abituare alla tenuta dello stru mento tracciante e a ben condurlo là dove si vuol lasciare delle trac ce. Da sempre i maestri hanno mirato a far conseguire un traccia mento uniforme, parallelo, equidistante dei segni grafici e a fare acquisire una più precisa cognizione delle forme geometriche, un’abilità nella definizione delle altezze e degli orientamenti che per mettessero alla persona di acquisire, grado per grado, il concetto della misura, della simmetria, delle euritmiche proporzioni, oltre che la visione chiara delle farine e dei loro rapporti. Al tempo stesso la pratica a rappresentare i segni grafici ha mirato a ottenere attenzione, precisione, pazienza, amore dell’ordine, ritenute da Defodon qualità tanto utili nella vita giornaliera, nelle arti e nei mestieri, in casa, nell’officina, in qualsivoglia ufficio, sempre e dovunque, ma purtroppo non comuni nel nostro paese e che appunto perciò bisogna proporsi di rafforzare» (Defodon, Dictionnaire de pedagogie).
Lo studio delle modalità per assicurare una maggiore spontaneità al gesto è esistito da sempre e sicuramente è stato incentiva to in questi ultimi anni, anche se il numero dei soggetti che si mostrano carenti nella produzione segnico-grafica è assai elevato. Tale difficoltà ad assumere destrezza nel lasciare traccia ha originato una specifica definizione classificatoria: disgrafia. Un appellativo intorno al quale è emersa una notevole confusione, una congerie da cui è necessario uscire. Un termine che autori e ricercatori hanno scambiato con disortografia, e perfino con incapacità di scrivere sot to dettatura, oppure co.n l’inadeguatezza a collegare i suoni con i rispettivi simboli alfabetici. La chiarezza della parola «disgrafia» è sta ta oscurata così dalla confusione tra ciò che è suono e ciò che è segno grafico. La disgrafia non si può confondere con nient’altro: è la difficoltà della persona nella produzione e comunicazione segnica espressa in ogni occasione del lasciare traccia, ossia nei vari momenti in cui si incide, disegna, dipinge o scrive; è a questa persona che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione e il nostro intervento di aiuto.
Guido Pesci
Il Pedagogista Clinico nelle Istituzioni.
Magi Editore. Prefazione.
Negli anni Settanta, quando la nostra categoria professionale muoveva i primi passi, non si può negare che ci siamo ammantati di glorie ancora da maturare, ma l’esaltazione ci aiutava a mantenere vivo quel sentire di una categoria in divenire, che pensava in tal modo di conquistare credibilità. Tuttavia ciò non era altro che l’esercizio di un diritto, di una politica di tesi ideali che accompagnavano il fervore, il desiderio di emergere dopo aver constatato, dai cambiamenti osservati nelle persone da noi seguite, la validità del nostro operare.
Ma la valanga di opinioni autoesaltanti che ha oscurato le informazioni basilari sulla nostra professione, ha avuto vita breve; è stata infatti sostituita da prove oggettive che, grazie a un grande impegno organizzativo e professionale, hanno fatto giungere chiara all’opinione pubblica quale tipo di formazione conferiva abilità e perizia nel condurre interventi di aiuto.
Non più chiuso nel suo fortino, il gruppo dei pedagogisti clinici è divenuto via, via sempre più coeso, ha prodotto certezze e, forte di un’organizzazione militante, è diventato giorno dopo giorno sempre più numeroso. Senza bisogno di scendere in piazza a rivendicare diritti, da liberi professionisti abbiamo sempre sentito l’obbligo di dimostrare un distintivo sapere e saper fare. Notizie di nostri interventi, delle modalità con cui venivano condotti, hanno iniziato a diffondersi sempre di più, rompendo il silenzio di un lavoro autonomo chiuso, condotto all’interno degli studi professionali, per espandersi in contesti culturali, in manifestazioni pubbliche e fissare così il prestigio della nostra categoria. La titolarità di un profilo professionale sempre più definito ha vinto qualunque ostilità, la titubanza ha lasciato il posto ai riconoscimenti positivi, il Pedagogista Clinico® si è proposto al confronto, all’intesa e alla collaborazione con gli altri professionisti, e le tante esperienze realizzate in ogni angolo del mondo vengono costantemente presentate in importanti congressi scientifici organizzati in Italia e all’estero. Ricordiamo in particolare quelli organizzati dall’ANPEC (Associazione Nazionale Pedagogisti Clinici); al primo, dal titolo «Pedagogia Clinica e Pedagogisti Clinici» (Firenze, 1998), presieduto dal prof. Andrea Canevaro, sono seguiti «L’azione educativa del Pedagogista Clinico» (Firenze, 2001), «Il Pedagogista Clinico® nella Scuola» (Altomonte, 2003), «La Pedagogia Clinica in aiuto alla persona» (Siracusa, 2003), «Nuove strategie di aiuto alla persona» (Cagliari, 2004), «La Pedagogia Clinica nel Progetto di Vita» (Catania, 2004), «Le professioni a sostegno della persona» (Guidonia Tivoli, 2004), «Ambiti lavorativi del Pedagogista Clinico®» (Palermo, 2005), «Strategie in aiuto alla persona» (Fano, 2005), «C’era una volta… la creatività» (Verona, 2005), «Il Pedagogista Clinico® e le istituzioni» (Milano, 2006), «Il Pedagogista Clinico® in aiuto alla persona» (Trieste, 2006), «Il Pedagogista Clinico® in aiuto alla persona» (Matera, 2006).
Diversi sono anche i congressi internazionali nei quali i pedagogisti clinici si sono resi protagonisti, ne citiamo alcuni: «Mediterranean Congress on Disability» (Tunisia); «Terapia integrata dei disturbi psichici e psicosomatici» (Catania); «European Depression Day» (Palermo); «The continuum between neurology and psychiatry in childhood and adolescence» (Varese); «New developments on diagnosis and treatment of mood disorders», organizzato dal Centro Studi Psichiatrici (Psychiatric Studies Centre) di Provaglio d’Iseo (as) e dal Medical Women’s International Association (Iseo, 2005). Una menzione particolare merita però «L’aiuto alla persona» (Firenze, 2004), organizzato dall’ANPEC e dall’isFAR PostUniversità delle Professioni, che ha vantato oltre mille partecipanti, richiamando un grande interesse dei media.
Tutti questi eventi hanno permesso ai pedagogisti clinici di argomentare, portare informazioni e idee verificate e confermate dalla ricerca, caratterizzare l’impegno della loro figura professionale e documentarne il corredo dell’identità.
L’evoluzione dal punto di vista storico, culturale e scientifico del successo del Pedagogista Clinico® è segnata da tre date: 1974, 2004 e 2006.
Come è noto il movimento dei pedagogisti clinici nasce in Italia nel 1974 quando alcuni ortopedagogisti, guidati dal prof. Guido Pesci, riuniti nel Cenacolo Antiemarginazione a Firenze, un centro di ricerca assai attivo, sostituirono al termine di «ortopedagogista» quello di «Pedagogista Clinico®», dando inizio a un movimento scientifico professionale che ha tratto dalla ricerca, dalla sperimentazione e dalla verifica sul campo, orientamenti scientifici in progressivo sviluppo fino a fornire solide fondamenta alla pratica professionale in generale e clinica in particolare. Questo percorso trentennale è stato celebrato nel 2004, in occasione del citato congresso internazionale di Firenze. In quella circostanza, il presidente dell’ANPEC (Association Nationale Pédagogues Cliniciens) del Belgio, il prof. Claudio Rao, ha annunciato la costituzione ufficiale dell’Associazione Europea dei Pedagogisti Clinici, ovvero la federazione che unisce tutte le associazioni di pedagogisti clinici presenti nei vari paesi europei (iscritti nei Registri dell’Unione Europea al numero 198364) e l’Albo Europeo dei Pedagogisti Clinici, a cui è possibile accedere solo dopo aver conseguito il Certificat Européen de Formation.
I plausi sono continuati nel 2006, in occasione del decennale dell’istituzione di una specifica formazione per la professione di Pedagogista Clinico®, non più conseguita, come in precedenza, con il criterio. di tirocinioapprendistato su richiesta dei laureati interessati, bensì mediante una formazione triennale postlaurea per laureati italiani e stranieri, resa possibile dalla costituzione dell’isFAR PostUniversità delle Professioni e dall’ANPEC.
L’ISFAR è sorta per venire incontro all’esigenza di un iter formativo qualificato in termini di saperi e di competenze professionali che richiede dei canali didattici che garantiscano un servizio di specializzazione postlaurea con una scuola di formazione permanente, in espansione in Europa e nel mondo, aperta a laureati con lauree specialistiche o del vecchio ordinamento e riconosciuta dalle associazioni europee ed extraeuropee dei pedagogisti clinici. L’ISFAR Post-Università delle Professioni ha sede in Italia e, oltre a essere un ente di formazione accreditato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), dalla Regione Toscana e dal Ministero della Sanità, Provider ECM, è un importante istituto di ricerca a cui fanno riferimento i pedagogisti clinici, i quali gli devono i loro metodi, le loro tecniche e lo strumentario, coperti da marchio registrato e da copyright. Conseguenza del successo scientifico ottenuto dalla Post-Università delle Professioni sono le pubblicazioni di diciannove dispense a uso esclusivo dei dottori in formazione, uno strumentario che comprende sei test e il brevetto della palla vibrocromatica, e inoltre cinque volumi: L’arte del movimento, Arte e olismo, Dinamica di gruppo familiare, Orientamento professionale e Disegno Onirico, di Maria Grazia Dal Porto e Alberto Bermolen, editi dalle Edizioni Scientifiche ISFAR Firenze, sulle diverse tecniche utilizzate in Pedagogia Clinica. Altri diciotto testi sono stati pubblicati nella collana di Pedagogia Clinica delle Edizioni Magi di Roma, mentre la rivista specialistica «Pedagogia Clinica Pedagogisti clinici», è ormai giunta al suo quindicesimo numero.
Quella delle professioni, è una Post-Università che, solo nel territorio italiano, vanta una holding di dodici sedi con soluzioni strutturali accoglienti e confortevoli in cui viene soddisfatta la continuità formativa con incontri in aula, esperienze di laboratorio e performance tecnico-professionali.
L’ISFAR non ha trascurato alcun impegno che potesse giocare una parte rilevante strettamente legata alla competenza professionale, all’impiego di strumenti e modalità tecniche, alla proliferazione degli interventi applicativi. La formazione che essa garantisce è per tutto il mondo un riferimento certo, e trova radici nella necessaria risposta.al bisogno della società moderna di modificare nella sostanza ogni processo cristallizzato in un clima di anomia e di disuguaglianza. Le motivazioni politiche che la sostengono sono contrarie a ogni intervento che offenda la coscienza morale e civile. I pedagogisti clinici chiedono una politica della solidarietà e di ridurre l’ingannevole fascino dell’organizzazione sanitaria, improntata a un’attenzione scrupolosa alla malattia, all’aspetto patologico e ai principi dell’invalidità, dell’assistenzialismo e della separazione in contesti protetti.
Il Pedagogista Clinico®, infatti, non interviene con trattamenti terapeutici, riabilitativi o rieducativi su affezioni fisiche e mentali, né tantomeno corregge i disturbi; egli è orientato ad affinare nell’uomo tutte le sue potenzialità, arricchire le possibilità conoscitive, sviluppare l’efficacia con un’operazione di soggettivazione i cui valori siano soddisfatti dalla stima di sé e dei propri bisogni sociali.
É un professionista che, con il suo patrimonio di conoscenza, di esperienza e di abilità, adeguato allo sviluppo e al progresso, sostenuto da propri metodi e da nuove tecniche esclusive e sostanziato di compiti concreti, tende ad agevolare recuperi di energia e capacità vitali e a soddisfare le tante esigenze finora deluse.
Un saper fare nel dare, dunque quello del Pedagogista Clinico®, concezione, questa, da cui scaturisce una disciplina caratterizzata dalle componenti attive e progressiste, per un rinnovamento che spiega la ragione per cui la società sente sempre più la necessità della presenza di questo professionista. Egli, infatti, grazie a una formazione sperimentale e applicativa, .ben riesce ad accogliere, analizzare e associare ogni orientamento verso l’evoluzione e il cambiamento.
Il tipo di preparazione e il criterio qualificante di tale figura professionale, derivano dall’acquisizione di competenze, di produzioni del sapere e dall’abilità nell’impiego delle tecniche che gli consentono di avere qualcosa di concreto in mano quello che può essere definito il «mestiere» , per garantirsi un Sé intorno al quale imperniare il suo ruolo operativo, un Sé efficace che gli permette di inserirsi nell’ambito della cultura pedagogico clinica non in maniera passiva, bensì da attore protagonista che lo porta a prendere coscienza delle proprie risorse per dare risposte ai bisogni degli altri con quel senso di equilibrio che impedisce di straripare nel tecnicismo senza invadere, assumendo così una funzione significativa. Egli è il professionista che, in particolari situazioni operative, può avvalersi dell’aiuto di un supervisore che deve essere iscritto all’Albo Europeo e deve aver frequentato una specifica formazione, corredo considerato indispensabile per tutte le associazioni appartenenti alla Federazione Europea delle Associazioni dei Pedagogisti Clinici.
L’espansione di questa professione nel mondo si deve anche alle borse di studio gratuite per stranieri con laurea paritetica a quella italiana, per i quali la Post-Università delle Professioni ha previsto una formazione a Milano e una a Firenze; contemporaneamente è stata stilata una convenzione per istituire una formazione del Pedagogista Clinico® all’Università di Chimborazo in Ecuador.
L’impegno culturale e scientifico dell’ ISFAR Post-Università delle Professioni è stato ampiamente premiato e ogni analisi sul proliferare dei pedagogisti clinici, chiamati a operare concreti cambiamenti nella vita dell’individuo di ogni età, trova una conseguente risposta nella competenza professionale raggiunta.
Quest’ultima, unitamente alla crescente rilevanza sociale della categoria, alla certificazione della formazione e alla tutela offerta dal codice deontologico, è un’evidente garanzia che ha fatto aumentare esponenzialmente gli iscritti alla formazione e le persone che richiedono l’intervento del Pedagogista Clinico®.
Egli, in qualità di professionista, non si rivolge ad aspetti settoriali , bensì alla globalità della persona, non si approccia alla «cura della malattia», né limita il soggetto qualificandolo come malato o paziente, ma utilizza strategie capaci di aprire un ponte tra le sue potenzialità, le sue mille risorse, le sue reali possibilità e le sue difficoltà e i suoi disagi, fino a sviluppare, migliorare e fare emergere le sue abilità, capacità e disponibilità. È un professionista preparato a delineare e coordinare le diverse azioni, definire su base pedagogico clinica le relazioni intra e interpersonali.
L’iter formativo in Pedagogia Clinica attrae i laureati più moti vati e con chiari obiettivi finalizzati a un impegno che offre significative soddisfazioni professionali e che non trova confini nelle tante e pur diverse realtà nazionali.
Il Pedagogista Clinico® è un libero professionista che ben si inserisce, facendosene parte attiva, nel cambiamento profondo della società, e rappresenta un cospicuo patrimonio, un’ingente risorsa che dischiude potenzialità notevoli per l’occupazione, nonché un grande aiuto per quanti sono in attesa di un clinico inteso finalmente come «aiuto alla persona». Il successo di questa figura professionale risalta con evidenza dalle testimonianze dei colleghi ri portate nel presente volume.
Guido Pesci, Marta Mani
Musicopedagogia. L’esperienza sonoro-musicale come aiuto alla persona nella relazione pedagogico clinica.
Magi Edizioni. Prefazione
Nel volgere lo sguardo al passato non si può non notare quanto, nelle diverse epoche storiche, la musica sia stata utilizzata per sviluppare abilità, fronteggiare stati di difficoltà e di disagio, riscoprire le origini della prevenzione e degli impulsi atti a favorire lo sviluppo di una personalità equilibrata e armonica.
Nel mondo classico, dominato dall’ideale dell’euritmia, l’uomo si trovava di fronte al compito di realizzare un accordo, il più possibile completo, tra corpo e anima, intelletto ed emozioni. Tale accordo veniva spesso raggiunto grazie alla musica che, secondo i miti, era di provenienza divina.
La dignità riconosciuta a quest’arte era ampia; con la musica si cercava di stimolare al cambiamento, di creare nuovi equilibri, opportune armonie e diverse modalità nelle relazioni interpersonali. Alla musica era riconosciuto il potere di “dilettare l’animo e far divenire armoniosi e ordinati”; era inoltre ritenuta adatta per “le passioni dell’anima”, ossia per gli stati di depressione, di ira e di eccitazione o per vincere i desideri smodati. Anche in epoche successive, gli influssi della musica sulla natura dell’anima hanno trovato conferme al punto che essa è stata considerata un’insostituibile occasione educativa per l’uomo.La storia ci offre numerosissimi esempi di come la melodia –– capace com’è di dar vita a dialoghi interni, esplorare il mondo delle emozioni e influire sui processi di identificazione – fosse in grado non soltanto di placare gli dei, ma di curare la tristezza, infondere coraggio, alleviare la durezza della solitudine e dell’attesa.
La scienza pedagogico clinica, impegnata da oltre trenta anni in ricerche utili a orientare la musica verso obiettivi educativi, non poteva certo trascurare tali effetti positivi. La Musicopedagogia, infatti, si avvale di modalità stimolatorie capaci di offrire all’individuo occasioni per sviluppare abilità, riconquistare un equilibrio personale e potenziare le proprie capacità relazionali. Questo metodo, che ha un suo marchio registrato, è stato presentato per la prima volta dal presidente dell’ANPEC (Associazione Nazionale Pedagogisti Clinici) in occasione del Congresso “Pedagogia Clinica e Pedagogisti Clinici”, tenutosi a Firenze nel 1998 (31 ottobre-1 novembre).
Da allora la Musicopedagogia si è andata sempre più perfezionando fino a trovare la definizione attuale che Mauro Carboni illustra in queste pagine, dalle quali traspaiono il suo percorso personale e il suo impegno costante nella ricerca. Le varie strade da lui seguite ci conducono a una visibilità dei contenuti di questo metodo e orientano sull’importante contributo ausiliario che esso offre alla formazione per la professione di Pedagogista Clinico®.
I pedagogisti clinici che si avvalgono della Musicopedagogia e delle sue tecniche ben conoscono quanto l’elemento sonoro, ritmico, spazio-temporale e vibratorio può favorire condizioni di benessere emotivo, migliorare la stabilità e flessibilità fisica, aprire canali di comunicazione e attivare nuovi processi di socializzazione. Strumenti musicali di facile uso e di immediata rispondenza possono condurre l’individuo a vivere esperienze di liberazione dalle inibizioni, vincere stati ansiogeni e offrire al corpo una diversa disponibilità ed espressività.
Con la Musicopedagogia, a seconda delle diverse disponibilità all’ascolto e del tipo di musica ascoltata, si può dunque accedere al benessere corporeo, scoprire la propria sensibilità al rapporto con gli altri, favorire effetti regressivi e flussi affettivi positivi, nonché il recupero dei ritmi biologici e il ripristino di equilibri tonico-muscolari.
Il Pedagogista Clinico con l’ausilio della Musicopedagogia, che coinvolge trasversalmente sensi, emozioni, vissuti e competenze, può promuovere le capacità di relazionarsi e di apprendere, oltre che offrire un’efficace partecipazione a esperienze creative individuali e collettive.
Al professor Mauro Carboni, che con questa sua opera offre sempre più incentivi alla professionalità del Pedagogista Clinico, va il nostro ringraziamento di ricercatori.
Guido Pesci
Ministero dell’Educazione Vs Ministero dell’Istruzione
Armando Editore. Prefazione
La necessità di riflettere sulle insidie, riconoscere le barriere e le contraddizioni e farvi fronte, ha spinto l’ANPEC Associazione Nazionale Pedagogisti Clinici a produrre questo libro con l’intento di contribuire a chiarire i motivi per cui il Ministero dell’Istruzione, così denominato, dovrebbe altrimenti denominarsi Ministero dell’Educazione. I contributi scientifico-culturali stilati dagli Autori, pedagogisti clinici, e che si leggono in questa Opera argomentano, sostanziano e giustificano la denominazione di Ministero dell’Educazione Vs Ministero dell’Istruzione e chiedono a chi è proposto alla direzione del Ministero di svincolarsi dai vecchi ed obsoleti costrutti teorici tradizionalisti che identificano la scuola come il luogo “istruttivo” esclusivo della trasmissione dei saperi. La vasta mobilitazione e l’animato confronto politico a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni nella scuola sta registrando un forte impegno su più fronti per contribuire, con significativi argomenti di pensiero e principi innovatori di dottrina e di pratica, alla realizzazione di una scuola diversa. Il grande interessamento e il serrato confronto mostrano come il dibattito sulla scuola investa fortemente e largamente la società, portandoci così a prendere atto di quanto questa sia afflitta da una profonda mala-educazione e sia quindi obbligata a rinnovarsi per approdare ad un vero e proprio rinascimento educativo.
Ed è proprio la consapevolezza dell’importanza che assumono le scelte da fare ad animare la disputa politica, sostenuta purtroppo più dall’opinionismo che non da presupposti scientifici. Ciò che infatti sembra sfuggire è che la scuola dovrebbe esseren un’istituzione educante e formativa, una comunità in cui fare appello all’educazione che per l’estensione dei suoi principi, è di vitale importanza per l’uomo e per la società.
La scuola dovrebbe essere un luogo in cui, conservati i principi educativi, poter incontrare un insegnante che non più “insegna”, bensì capace di offrire l’opportunità di apprendere in un clima armonico, di attenuare la primaria identificazione emotiva con la famiglia per proporsi con una lenta e graduale partecipazione attiva al gruppo e alla vita sociale, di aiutare a scoprire la validità delle connotazioni del rispetto e della collaborazione. Ma attualmente nella scuola, intesa luogo in cui si insegna o addirittura si “istruisce”, come proclama il Ministero competente, si sta assistendo alla dispersione dei valori educativi. Di fronte a ciò, vien fatto di riflettere come sia indispensabile arginare l’imperizia di quanti pensano che per aiutare una persona ad apprendere si debba solo ”insegnare o istruire” limitandosi a fare e far fare. L’abilità indispensabile a chi si occupa dell’evoluzione dell’uomo non può più essere il far apprendere l’esclusivo sapere specialistico delle materie, ma il saper dare, quel dare foriero di un autentico sviluppo in equilibrio. Si impone dunque una svolta coraggiosa, un cambiamento radicale, che parta fin già dal creare un Ministero non più dell’Istruzione, ma dell’Educazione. Da sempre l’Associazione, affidata alla pratica educativa del concreto basata sui principi della Pedagogia Clinica, si è proposta di dare avvio ad un percorso culturale, scientifico e professionale, caratterizzato da passione e impegno sociale rivolto a perseguire una società più giusta e una vita comunitaria più ricca e stimolante, vivacizzata da una fucina di nuovi valori, ricca di rispetti riservati nell’ottica di rapporti umani in grado di accompagnare verso la libertà personale considerata la parte più intima e più nobile. Animata da un clima di fermento scientifico e formativo l’Associazione muove con l’intento di creare con civile coraggio una coscienza costruttiva orientata a cambiare gli schemi tradizionali in nuove regole morali e sociali influendo sull’avanzare in estensione l’aspirazione di un sociale inclusivo. Per l’imperativa necessità di un mutamento sociale e di un nuovo modo di sapere scientifico e socioculturale, l’ANPEC è impegnata nell’apportare alla struttura sociale un ruolo moderno, rinnovato, con progetti per servizi educativi organizzati con mezzi, strategie e azioni, con linee guida specifiche e opportune alla realizzazione, intese ad impedire la disgregazione sociale, culturale e affettiva a garanzia di una uguaglianza senza distinzione. Non asserviti ai criteri di una società mendica, i pedagogisti clinici studiano ed agiscono sul rapporto uomo-ambiente ritenuto uno dei fattori principali dell’educazione a cui attribuiscono la responsabilità di significative conseguenze, e si caratterizzano per fervore e impegno contro fatti e situazioni di degrado sociale da imputare all’impostazione sociopolitica conservatrice ed elusiva.Il bersaglio sono i limiti di una società fratturata che da sempre chiede risposte spesso ostacolate da un sistema radicato di consuetudini secolari, di uomini cresciuti nel sistema e fedeli al sistema, di consorzi di uomini strettisi in alleanza difensiva a favore di questo sistema, ad un sistema supposto immodificabile. Tante le situazioni in cui l’Associazione si trova a studiare e intervenire contro l’inerzia responsabile di eludere sostanziali impegni; inerzia rea dell’assenza di nuove forme di diritto. Con questo libro l’Associazione non vuol fissare regole, bensì vuole aprire un confronto tra eventuali diverse posizioni finalizzato al principio dell’educazione base essenziale della formazione dell’uomo e di una società civile che trova radici nella scuola.
Guido Pesci
Nulla di troppo. Il llinguaggio verbale nel Reflecting®.
Magi Edizioni. Prefazione.
Il Reflecting® è una disciplina che riconosce alla persona una riserva di forze, di energie e di potenzialità, spesso sopite, che aspettano di essere rintracciate per fecondare pensieri e azioni e farli diventare realtà. È una scienza sostanziata da principi e modalità che sollecitano l’individuo a riflettere su di sé e trovare nelle proprie risorse personali le risposte per innalzare l’edificio della propria personalità, promuovere lo sviluppo di abilità e disponibilità, raggiungere nuovi equilibri.
La persona viene aiutata a riflettere e a trovare in se stessa, da se stessa, con l’esplorazione interiore, l’opportunità di far affiorare dai ricordi del passato, le tante percezioni indefinite per poter dare loro una conformazione autentica. Un paradigma pedagogico che, di-sgiunto dai cristallizzati criteri di intervento terapeutico, propone un’identità aperta su cui poggia la logica della libertà che alimenta i criteri di rinnovamento del Reflecting®.
I risultati degli interventi confermano con ampia eco che l’investimento sulle risorse della persona, perseguito da questa disciplina e sostenuto dal patrimonio della pedagogia attiva, offre immense possibilità per aiutarla a gestire le proprie difficoltà e i propri disagi, a promuoversi per realizzare un sostenuto progetto di integrazione. Le opere scritte che avviano alla conoscenza del Reflecting® sono ormai un buon numero e da esse è possibile apprendere che «solo una molteplicità di stimoli può realmente produrre nella persona la forza e il desiderio di interrompere il circolo vizioso che alimenta la persistenza del problema e di aprire la strada al cambiamento. Responsabile di questo impegno è il Reflector®, operatore specializzato nel mettere in pratica il metodo, egli è colui che non fa né insegna, si limita a stimolare la persona affinché promuova idonee riflessioni sul proprio essere e sul proprio esistere e raggiunga una personale adeguatezza nel prendere decisioni e nel risolvere i problemi» (Pesci, Pesci, Viviani, 2003, p. 8). Iniziare un lavoro di riflessione su se stesso, porta un accrescimento della consapevolezza, dell’autostima e dell’indipendenza nell’individuo, gli schiude una realtà più ampia e più profonda, lo conduce a intraprendere una sfida nel presente per un futuro da lui scelto che lo vede protagonista. «La riflessione è un caleidoscopio di pensieri che illumina la mente, che crea chiarezza, un processo di traduzione, di riconoscimento, che permette alle domande di emergere, di fare una lettura di quel diario delle insidie, di vecchie convinzioni, reazioni e paure che affiorano come barriere della propria personalità; è un lento processo di consapevolezza, di crescente coscienza dei sussurri interiori» (Pesci, 2005, p. 17).
Il Reflecting® propone una nuova maieutica, contrapposta a quella socratica. L’esortazione «conosci te stesso» viene però pienamente soddisfatta da questa disciplina che mira a svegliare, sviluppare e organizzare nell’uomo l’azione della volontà, la coscienza e la padronanza di sé, il dominio delle circostanze e il superamento degli ostacoli. Nell’assolvere tale impegno ci si affida a una diversa architettura di pensiero e di azione, alla disciplina semiotica, a tutti i contenuti espressivi e comunicativi, siano essi linguistici, visivi, gestuali, posturali ecc. e a una molteplicità di canali informatori. Tante «occasioni per scoprire e distinguere le diverse tonalità affettive e i differenti stili di vita, nonché l’opportunità di interrogarsi per conoscere e riconoscere i significati complessi delle modalità con cui le esperienze di ciascuna componente possono averne modellato la personalità attuale» (Pesci, Viviani, 2008, p. 239).
Attraverso la riflessione sulla complessità, la pluralità di situazioni che costituiscono il tessuto su cui s’innesta l’esperienza, il sostare su ogni singolo evento che ha creato e crea una risonanza porterà pian piano al delinearsi di essa, a dar vita a connessioni o intuizioni, rivelando, mediante una significante ricerca, gli aspetti più intimi per una nuova, diversa, comprensione. Un iter educativo, questo, che aiuta la persona a leggere la mappa del percorso da seguire per entrare in contatto con le proprie esigenze, rafforzare la consapevolezza individuale, possedere una volontà capace di condurre azioni in modo libero e responsabile. Il Reflecting®, nel favorire l’evocazione, sviluppa l’apprendere ad apprendere attraverso stimoli alla riflessione per itinerari di indagine intima, di conoscenza, elaborazioni-evocazioni al fine di aiutare le persone a gestire i propri problemi. Da più parti si è chiesto se fosse una disciplina originale, un metodo terapeutico alternativo, un approccio psicoterapeutico o un metodo anti-psicoterapia. A queste domande si può rispondere sostenendo che il Reflecting® contrasta con ogni tentativo di dominare e dirigere la vita dell’uomo, adducendo per questo anche un riconoscimento a quanti nella storia hanno implorato: «Non darmi consigli!!! So come sbagliare da solo!!!» e a chi ha sostenuto che non si può insegnare qualcosa a un uomo, ma solo aiutarlo a scoprirla dentro di sé. La disciplina è sicuramente originale e alternativa e, senza reticenze, si può affermare che segue un criterio inteso a favorire costantemente la ricerca e portare appaganti modificazioni nella pratica che, sostanziata da principi pedagogici, non può favorire confusioni conflittive. Stare in relazione con una persona che deve essere aiutata a intraprendere un percorso esplorativo, vincere le resistenze, parlare di sé, esporre ogni sua elaborazione e analisi per scoprire progressivamente e confrontarsi con i propri conflitti, i propri impulsi, le proprie difese e motivazioni per la conquista di una personale maturazione e di un conseguente equilibrio, richiede una provata capacità professionale qual è quella del Reflector® Questo specialista, sostanziato dai principi del Reflecting®, è in grado di esprimerla in ogni occasione di dinamica relazionale, non solo con singole persone, ma con coppie, famiglie, gruppi, all’interno di un setting, contribuendo così alla soluzione dei problemi riguardanti i rapporti interpersonali e sociali. Il Reflector® con la sua acquisita abilità aiuta l’individuo a riflettere e a partorire la propria verità, a decifrare quel geroglifico, apparentemente inintelligibile, del suo passato e del suo presente, premessa per liberarsi dalle inquietudini, dalle concezioni confuse che lo ottenebrano e lo sviano. Per accompagnarlo nella riflessione e nel distinguere da se stesso ogni aspetto dell’universalità che gli appartiene, questo professionista ne tutela la libertà utilizzando occasioni-stimolo tra cui la parola, non più strumento per persuadere, rassicurare o dare consigli, ma per favorire l’espansione delle potenzialità e delle capacità, sviluppare i pensieri e farli divenire idee-forza. L’uso della comunicazione verbale nel veicolare le sollecitazioni alla riflessione, visti i risultati di quanti hanno abusato e abusano in ogni modo del linguaggio parlato, ha suscitato nel Reflecting® una preoccupata attenzione. Le parole sono imprescindibilmente pre-senti sullo sfondo generale della comunicazione, ma occorre farne un uso consapevole ed efficace. La fruibilità dei mezzi verbali è molto difficile, non solo perché richiede di badare all’argomento, alla rapidità, alla precisione e al «canale» adottato nei confronti dei «riceventi», ma perché é necessario trovare, tra le parole, quelle che veicolano nel modo più appropriato il senso della sollecitazione che vogliamo esprimere. È questa complessità che induce da sempre a preoccuparci sul mezzo multiforme e complesso del linguaggio con il quale gli uomini influiscono l’uno sull’altro e che nel Reflecting® deve essere soltanto motivo di azione per stimoli alla riflessione. In questi anni abbiamo fatto molto, la ricerca non ha trascurato quanto una persona reagisca alle parole di significato comune, al valore simbolico, alla somiglianza del suono di una parola con quello di un’altra o alle olofrasi; ha posto attenzione ai fenomeni della lingua nella loro flessione, nella sintassi e nei valori semantici, riconducibili all’analisi morfologica, all’antagonismo tra regole e libertà, regolarità e arbitrii e pure all’importanza che assumono il senso e il non senso della frase, le chiacchiere e le banalità. È stata annotata l’influenza che può avere sulla persona una frase «monoreme» rispetto a una costruita con più parole, sono stati rilevati gli effetti dell’utilizzo della «giustapposizione», del mettere insieme più proposizioni ed evitare così le congiunzioni e altresì si è indagato come impiegare in maniera idonea le congiunzioni coordinanti o avversative («e», «ma») che possono offrire l’opportunità di pause e sospensioni. L’obbligo per il Reflector® di assumere la capacità di utilizzare le sfumature linguistiche che possono essere apprese soltanto avvicinando i vari nessi comunicativi fino a giungere a un appropriato uso del linguaggio verbale, come contenuto, struttura ed effetto e l’indagine indirizzata in tal senso, non sono mai venuti meno. La dimostrazione dell’impegno cosi orientato, oggi si legge nel lavoro di Alessandra Perri, la quale, dopo una lunga sperimentazione, espone gli effetti di quel campo fecondo di sfumature linguistiche che ben danno prova del dischiudersi di grandi ulteriori incensurabili stimoli alla riflessione.
Guido Pesci
Pedagogia Clinica in classe. Scuola dell’infanzia
Omega Edizioni. Prefazione.
Di fronte a un interesse sempre più avvertito nella nostra società per i problemi dell’infanzia si pone l’esigenza di delineare i principi e i criteri metodologici di un intervento di aiuto alla persona, sviluppato in alternativa al dilemma tra piano pratico (educazione) e piano teoretico (pedagogia). La Pedagogia Clinica è rivolta al problema essenziale della persona umana, all’aiuto da offrire all’individuo per uno svolgersi armonico della sua personalità, ritenuto di fondamentale importanza per l’affermarsi dei momenti successivi. Ne deriva che questa disciplina ha la sua validità in quanto promuove l’educazione, cioè riflette sul piano della realizza zione pratica e concreta ogni chiarezza metodologica e ogni presupposto scientifico. Da ciò si capisce che lo sforzo è orientato verso una revisione dei piani metodologici in fatto di educazione, per un processo costitutivo di fenomeni umani atti a porre in situazione il soddisfacimento delle esigenze dell’esistenza dell’uomo. La Pedagogia Clinica, strettamente legata ai risultati della ricerca delle scienze umane, si è mossa nella convinzione che il valore di un metodo educativo è-dato dai risultati che si ottengono, dalla possibilità di sviluppare ogni aspetto della persona , dalla capacità che si offre a questa di esprimere i propri sentimenti, acquisire conoscenze e abilità, apprendere come imparare. Il livello specializzato del Pedagogista Clinico che tiene presenti, armonizza, integra le opinioni e le discipline pedagogiche, sociologiche, psicologiche e mediche e le organizza in metodologie e tecniche per un intervento pratico, è rivolto alla persona con l’impegno di perfezionare ogni sua nozione, capacità e abitudine per agire una seria e attenta prevenzione.
Guido Pesci
La mediazione. Il Pedagogista Clinico mediatore e formatore.
Magi Editore. Prefazione
La mediazione è un intervento che mira alla riorganizzazione delle relazioni e alla risoluzione o attenuazione dei conflitti nonché a uno sbocco naturale nella composizione e nell’accordò. Essa, quale valida alternativa al conflitto, diventa una risorsa per uscire dalla crisi da questo provocata e giungere a un dialogo, un’intesa.
Nelle relazioni umane il dissenso è frequente e spesso, se molto acuto, può dar vita a conflitti interpersonali e sociali tali da gene-rare nella persona una grande distruttività, un disordine emotivo-organizzativo che le impedisce di aprirsi al dialogo. In tali situazioni la mediazione può rappresentare una preziosa opportunità per la riconquista dell’equilibrio, della disponibilità a ricercare accordi, per migliorare la convivenza e attivare un’armonica cooperazione.
Mediare vuol dire educare all’armonia, missione, questa, che assai bene si attaglia al Pedagogista Clinico®, il quale è in grado di percepire il modo di sentire degli altri, di dare rilievo ai sentimenti, di favorire e promuovere una valida relazione tra gli individui. Egli è un professionista chiamato a sollecitare riflessioni, a favorire nella persona lo sviluppo della disponibilità e della capacità di raccontarsi, esprimersi, al fine di chiarire i rapporti problematici e gestire la propria posizione in un determinato contesto.
Avvalendosi di tecniche specifiche, il Pedagogista Clinico® guida le parti in conflitto a comprendere il diverso significato che per ognuna di loro ha la situazione conflittiva in atto. Egli in tal modo incoraggia un processo di trasformazione del conflitto in una occasione preziosa di consapevolezza. Offre alle parti la possibilità di liberarsi dalle ombre del passato per ritrovare una propria dimensione nel presente in cui incontrare l’altro.
La specifica e puntuale formazione professionale e personale consente inoltre al Pedagogista Clinico® di far ricorso a una ricca metodologia per affrontare e risolvere situazioni di tensione non solo tra singoli individui, ma anche all’interno dei gruppi, nell’intento di prevenire e altresì di fronteggiare quelle già esistenti.
La possibilità che egli ha di svelare la realtà microscopica e macroscopica che caratterizza l’universo sociale è però strettamente legata all’utilizzo sapiente delle varie tecniche mediatrici, quali il teatro spontaneo, il sociodramma, il gioco drammatico, la drammatizzazione e lo psicodramma olistico. Notevole importanza hanno inoltre i mezzi espressivi plastici, i quali permettono di far emergere, mediante espressioni grafiche, il proprio mondo interiore, ma anche i burattini, un oggetto intermediario assai utile per far fluire la comunicazione e offrire alla persona un contatto significativo con la propria realtà, e le maschere, che consentono un’efficace espressione di contenuti altrimenti taciuti.
Il Pedagogista Clinico®, esercitando la mediazione, può pervenire a risultati incoraggianti, che vedono la lite e il conflitto mutarsi in dialogo.
Il presente volume offre un notevole contributo per la definizione delle conoscenze e delle abilità del Pedagogista Clinico® mediatore, oltre a suggerire ulteriori tecniche e nuovi orientamenti assai significativi che consentono alla persona di riscoprire ed esercitare le proprie facoltà intuitive, spesso trascurate, in armonia con quelle razionali, e aiutano le parti in conflitto ad affrontare tutte le questioni connesse alla riorganizzazione di sé in rapporto all’altro, facendo emergere l’autostima di ognuno senza che l’altro si senta sopraffatto.
Guido Pesci
Il corpo in Pedagogia Clinica. Riflessioni per essere in forma
Magi Edizioni Prefazione
Il bisogno e il desiderio di vissuti tattilo-corporei caratterizza tutta la vita della persona alla ricerca continua di vitali esperienze per soddisfare le naturali necessità orientate alla conquista di un linguaggio del corpo, suffragato da una evidente, meravigliosa, efficace funzione fisio-meccanica, psico-cinetica e senso-percettiva, avvalorato da una realizzata strutturazione, integrazione ed espressione di sé. Un corpo armoniosamente strutturato, riflesso nel proprio ritmo vitale personale, capace di dialogare con padronanza, acutezza e intensità dei movimenti coordinati, con un partecipato equilibrio tra sensazioni e sentimento. Un corpo che rassicuri, che abbia la disponibilità ad aprirsi verso nuovi orizzonti di piacere e di benessere, garantire stabilità emotiva e scambi socializzanti, per proporsi ad una vita di relazione libera dalla repressione. Una sana evoluzione ed un accrescimento ricco di abilità e disponibilità alla vita necessita di sviluppare attraverso il corpo, armonie corporee ed equilibri emozionali, sentirsi a proprio agio nel proprio corpo sostenuti dalle attitudini rivolte a rintracciare e sviluppare abilità capaci di soddisfare risposte tonico-emozionali, raggiungere una conoscenza e coscienza di sé, una definizione dell’immagine sempre più completa e soddisfatta e, senza la necessita di una spettacolarizzazione, l’integrazione sociale, da insufficienti e carenti esperienze
Questo equilibrio dinamico che eleva i soggetti ad essere consapevoli di se stessi, delle loro emozioni e dei propri pensieri, purtroppo, non sempre è presente, molte possono essere ostacolati da un potenziale inattivo, impreparati ad apprendere la grammatica corporea per una disordinata funzione dei referenti tattili, inadeguata distribuzione dell’energia, barriere dell’Io, insufficienti esperienze e conseguenti fenomeni psico-corporei critici sviluppati dall’insulto e il dolore, dalla sofferenza e la tensione, mutuati spesso da fantasmi somatici e conflitti profondi.
Alcuni manifestano queste inadeguatezze con esuberanza motoria, impulsività, movimenti parassiti, disordini nella coordinazione, nel controllo dell’equilibrio, alterazioni posturali, tensionalità frenanti e inibenti ogni organizzazione ritmica e di adattamento allo spazio, a cui possono associarsi carenze di memoria cinestetica, oppure si mostrano inattivi, chiusi, pigri, con un senso di sfiducia in se stessi, persone incapaci di frenare l’insorgere dei conflitti, con ispessite conseguenze sulle disponibilità alla crescita individuale e alle relazioni sociali.
Difficoltà e disagi diversi che richiedono aiuti idonei, orientati a far riscoprire all’individuo la propria somaticità, acquisire un maggior controllo sui suoi stati emotivo-affettivi, uscire senza violenza, ma con un itinerario personale dalla sofferenza.
Un intervento che trova risposte dalla professionalità e dai metodi esclusivi del Pedagogista Clinico®, capace di destituire ogni ostacolo all’integrità psico-corporea fino a permettere alla persona di raggiungere un pieno valore esistenziale. Un percorso che viene perseguito a misura delle potenzialità, abilità e disponibilità (PAD), attraverso l’analisi delle differenti modalità espressive, dalla traduzione dei significati affettivi, dalle individualità maturative e dall’entità psichica inedita, da cui il Pedagogista Clinico® trova il giusto orientamento per il suo intervento di aiuto, armonizzando in modo flessibile i propri metodi ai bisogni del soggetto.
Sono metodi e tecniche affermate sul principio dell’educazione globale, a cui non sfugge che ogni individuo ha necessità di un percorso suo personale, e da un solido statuto scientifico, sostenute da ricerche e studi sulla disponibilità del proprio corpo, la qualità della risposta agli stimoli, i processi mentali che regolano la condotta, le intenzionalità che conducono all’azione e la capacità di adattamento all’ambiente, proiettati ad organizzare esperienze rivolte al vivere dinamico dell’uomo nella società. Metodi che riconoscono al corpo la sede primaria dell’affettività, del desiderio, dell’eccitazione pulsionale, di un Io prodotto dal corpo e di un corpo proiezione dell’Io, con cui il Pedagogista Clinico® eleva il piacere ad abitarlo positivamente fino a renderlo dialogante, disponibile allo scambio.
Con parole tattili, vissuti dialogico-corporei, stimoli contrattivi e decontrattivi, e movimenti passivi, il Pedagogista Clinico® sollecita sensazioni efficaci, forme di comunicazione idonee a placare le tensioni, capaci di mantenere vivo l’equilibrio delle emozioni, fino a rendere la persona più felice e disponibile. A queste molteplici e differenti promozioni stimolo il Pedagogista Clinico® affida l’eliminazione dei fenomeno critici, l’opportunità di difendersi e prevenire ulteriori aggressioni, sollecita la coesione dinamica fra dimensione somatica e dimensione psichica, ed offre alla persona il compimento dei significati e dei significanti della sensorialità con cui si esprimono gli affetti e i sentimenti.
L’elaborata analisi dei fatti e dei risultati hanno designato al corpo in Pedagogia Clinica, una complessa, varia e multiforme modalità di applicazione, fondamentale per il recupero di energie necessarie in modo da accrescere il sollievo dalla sofferenza e disporsi favorevolmente alle lotte di amore e di vita. Un’insostituibile sistema di azione in aiuto alla persona per far defluire l’energia, regolare il tono muscolare, recuperare ogni disordinata funzione, riscoprire la flessibilità, liberarsi da ogni stratificazione ansiosa, vincere l’ignoranza che rende schiavi di se stessi, ritrovare la libertà. Processo energetico-comunicativo, di personalizzazione, che assegna alla persona la possibilità di scoprire il perfezionamento tra vissuto corporeo e immagine di sé, esprimersi nella propria totalità, fino a ricercare e scoprire il piacere, di tornare a vivere una vita di gradimento e di godimento.
Stimoli corporei la cui influenza serve da legame fra gli effetti della conoscenza del nostro corpo e lo spirito in uno stato di disponibilità ai piaceri delle emozioni e dei sentimenti, scambi dialoganti che aprono all’esplorazione, a trovare risposte ai bisogni di perfezionare una sana evoluzione, un accrescimento ricco di abilità e disponibilità alla vita, fiducia e controllo di sé.
Guido Pesci
Ergopedagogia. Dall’integrazione scolastica all’integrazione lavorativa e sociale del disabile.
Armando Editore, Prefazione
La ricerca scientifica, che studia in modo comparato lo sviluppo della persona non disabile e di quella disabile, ha trovato fondamenti che consentono di sostenere che esso è dominato sostanzialmente dalle medesime leggi, poiché le funzioni psichiche superiori nel processo di formazione, sia dal punto di vista filogenetico che ontogenetico, hanno in comune un’origine sociale.
È opinione unanime che le funzioni psichiche superiori della persona si sono formate nel periodo storico dello sviluppo dell’umanità e non devono la loro genesi all’evoluzione biologica che ha originato il modello biologico umano, bensì alla vita sociale e della collettività, sono frutto dell’evoluzione dell’uomo in quanto essere sociale. Esse quindi si organizzano e si ristrutturano nel corso della sua maturazione, nell’ambito del processo relazionale e con il contributo dell’ambiente circostante.
Questa concezione moderna dell’evoluzione umana richiede di modificare nella sostanza ogni percorso di aiuto a favore del disabile e ha conseguenze nella teoria e nella prassi. Infatti, oltre a non considerare più chiusa e inaccessibile la sfera delle funzioni superiori, è avversa ad ogni azione pedagogica indirizzata all’esclusivo perfezionamento di processi elementari, all’allenamento delle singole sensazioni o dei singoli movimenti. I sistemi che hanno inseguito processi ristretti all’elementarietà, hanno ottenuto risultati che si sono rivelati così poco utili e infruttuosi nella pratica, da portare ad una crisi seria e profonda. Credere di esaurire l’educazione del disabile con l’elaborazione di esercizi da far eseguire in modo automatico, inconsapevole e artificioso, in cui egli si distingue come puro esecutore, ha portato a ridurre la formazione ad un atto esecutivo adatto solo ai fini dell’addestramento di un semi-uomo.
Contro queste inadeguatezze si schiera oggi la pedagogia sociale, quale unico strumento scientificamente valido per l’emancipazione del disabile, capace di riprodurre le funzioni mancanti o carenti, anche là dove sono tali a causa dell’insufficienza biologica. Soltanto l’educazione sociale sviluppa nella persona diversamente abile, attraverso efficaci rapporti di scambio e di collaborazione, utili compensazioni e la aiuta a superare la solitudine e a muovere verso nuovi impegni. Ciò a dimostrazione del fatto che quello che è impossibile sul piano dello sviluppo individuale diviene invece possibile sul piano dello sviluppo sociale, e che la collettività nell’accogliere il comune e il diverso può garantire a tutti, nell’intesa e nella solidarietà, sentimenti di vita positivi.
A nessuno può sfuggire quanto le conseguenze sociali della disabilità rafforzino, alimentino e consolidino l’insufficienza, specie se nel termine “sociale” comprendiamo lo sviluppo culturale, prodotto della vita e dell’attività sociale dell’uomo, fino a “tradurre” che tutto ciò che è culturale è sociale. Alla luce di questo, la ricerca pedagogica intende considerare ogni aspetto positivo della personalità del disabile e avvalersi di un sistema di percorsi indiretti per sviluppare le funzioni psichiche superiori dell’attenzione e del pensiero, laddove quelli diretti sono sbarrati a causa delle difficoltà, nella consapevolezza che dove è impossibile un ulteriore sviluppo organico, è illimitatamente aperto il cammino verso lo sviluppo culturale, sfera principale in cui è attuabile la compensazione di un’insufficienza.
Il pedagogista, oggi, sa bene che il disabile può assorbire e assimilare feconde occasioni di conoscenza dalla cultura e ristrutturare il comportamento naturale; due piani, quello culturale e quello naturale, di sviluppo del comportamento che diventano il punto di partenza per segnare un “nuovo corso”, finalizzato all’evoluzione e ad una diversa teoria dell’educazione.
Questo professionista si trova dunque a dover tener conto degli effetti sociali della disabilità, dei conflitti che possono sorgere quando il disabile entra a far parte di contesti gruppali, per questo il cammino che deve seguire per educarlo deve essere ispirato dalla pedagogia sociale, orientato dalla creazione positiva e dai metodi scientifici della disciplina ergopedagogica.
L’Ergopedagogia si basa sul principio della compensazione sociale, cioè dello sviluppo creativo e richiede un lavoro di costruzione e di edificazione sociale e collettiva, a cui ogni disabile, insieme agli altri compagni non disabili, prende parte in rapporto alle proprie possibilità.
Dall’esito della compensazione sociale, idonea o meno ad eliminare nella persona diversamente abile ogni sensibilità repressa e ad evitare che si rinchiuda in se stessa per proteggersi dalle condizioni dall’ambiente, dipendono l’efficacia della preformazione professionale nella scuola e l’inserimento in azienda. Un’efficacia di cui è responsabile anche l’Ergopedagogista, il cui compito è quello di fornire al disabile le forze, gli stimoli, le spinte per il superamento delle difficoltà, con modalità, percorsi e mezzi speciali adatti a condurlo verso un’integrazione sociale realmente partecipata.
L’Ergopedagogia è il campo di conoscenza teorica e di lavoro scientifico-pratico che si basa sul principio secondo cui il soggetto, la cui crescita è aggravata da disabilità, si è sviluppato in un modo qualitativamente diverso e non limitato e ridotto nelle proporzioni, ed è sostenuto da elementi puramente quantitativi sorretti da una concezione aritmetica della disabilità. Per l’Ergopedagogia ciò che differenzia la persona disabile da quella abile è la specificità della struttura organica e psicologica, il tipo di sviluppo e di personalità.
L’Ergopedagogia si affida alla particolarità qualitativa liberata da presupposti negativi, ad una pratica del concreto, ad una solida base metodologica, a compiti proficui e specifici. Questo significa che lo studio dinamico del disabile condotto dall’Ergopedagogista non si può limitare alla constatazione del grado e della gravità dell’insufficienza, ma deve includere l’ipotesi della validità dei processi compensatori, sostitutivi, integrativi e correttivi, idonei per promuovere influenze positive e una tangibile reazione della personalità. L’Ergopedagogista tiene fede all’idea dell’abilità generale che si basa sul principio della complessità e della compensazione delle singole funzioni; intende quindi l’abilità come manifestazione di un’intera serie di funzioni, confortato dalla convinzione che non esiste un’unica abilità, come non esiste un unico intelletto. L’intelligenza pratica, che può combinarsi a vari livelli con altre forme e mezzi di correzione di altre insufficienze o inadeguatezze, offre alla persona diversamente abile la capacità di utilizzare convenientemente degli strumenti, presupposto del lavoro e della cultura, e all’Ergopedagogista di schiudere prospettive vastissime per l’aiuto pedagogico al disabile. L’Ergopedagogista è uno specialista che non si accontenta di programmi scolastici ridotti e semplificati, ma si propone realizzare forme di lavoro rispondenti alle esigenze del soggetto disabile. Il suo scopo è di operare in una scuola, che non si adatta alle carenze, ma si batte contro di esse per superarle e che, oltre alla preformazione professionale si prefigge compiti sociali positivi che avranno come esito l’impiego del disabile nell’artigianato, nell’industria e nell’agricoltura.
Bisogna educare la persona e non il disabile, e pur utilizzando tecniche, procedimenti e metodi specifici, non può mancare un richiamo forte a non sacrificare il soggetto alla disabilità, a non continuare a cercare ogni minuzia di questa senza notare le enormi potenzialità positive o praticare interventi orientati per lo più verso la malattia e non verso l’individuo. Ed è parimenti da respingere la tendenza a conformare il diversamente abile ad un tipo sociale, creando per lui una categoria, con la conseguenza immediata della degradazione della posizione sociale, della deviazione sociale, alterando così il suo ruolo e il suo destino di partecipante alla vita.
Tutti siamo chiamati a lottare per impedire l’isolamento del disabile in un microcosmo angusto dove tutto si adatta al deficit, ogni cosa è a misura di disabile, ogni cosa si riferisce a lui, che è obbligato a spaziare esclusivamente nella cerchia ristretta dei disabili. Un ambiente artificiale che non ha nulla in comune con il mondo delle persone abili e in cui la patologia prospera, traumatizzando e atrofizzando sistematicamente chi è diversamente abile, mantenendolo saldo nella sua disabilità.
A distanza di tanti anni dall’abbattimento delle strutture segreganti dei manicomi, è giunto il momento di chiudere ogni altra struttura che impone al disabile di vivere in condizioni che “esalano odore di ospizio” o di ambiente sanitarizzante, impedendogli di svilupparsi, di soddisfare l’unità e l’integrità della personalità. Si deve altresì smettere di considerare la disabilità un problema di assistenza sociale e bisogna impegnarsi per mantenere vivi i principi della pedagogia sociale volti a sradicare ogni falsa mentalità filantropica.
Solo in tal modo la disabilità sarà sconfitta e la pedagogia si vergognerà del termine “disabile”. Quel giorno non può essere lontano se muterà il sistema sociale, se si offriranno alla persona diversamente abile migliori condizioni di vita, se la pedagogia sociale riuscirà a sopraffare ogni indizio di differenza e di diversità. Il compito non è più tanto quello di educare i disabili, ma i soggetti abili a cambiare il loro atteggiamento nei confronti della disabilità.
Agli intenti di modificare in tempi lunghi le condizioni sociali che ancora impongono il separatismo e gli effetti di un’educazione indirizzata alle persone abili, l’Ergopedagogia offre una grande opportunità per uscire dai confini dell’educazione tradizionale, della pedagogia individuale, ed avviare il disabile ad una partecipazione attiva e dinamica alla vita, con la prospettiva di poter svolgere un lavoro con altri lavoratori abili e insieme a loro intraprendere l’esperienza della cooperazione e della collaborazione, partecipando un’autentica integrazione.
Guido Pesci
La diagnosi pedagogica. Il metodo dell’insegnante per conoscere l’allievo.
Armando Editore. Prefazione
“Apprenez à connaitre vos enfants; car très assuèment vous ne les connaissez point” (Imparate a conoscere i vostri bambini, perché molto spesso non li conoscete affatto) raccomandava Jean Jacques Rousseau. Una sollecitazione, questa, un appello agli insegnanti perché mantengano le abilità diagnostiche già riconosciute loro oltre cento anni or sono, quando al maestro si chiedeva di indicare su quella che fu chiamata “Carta biografica”, ogni dato utile per la conoscenza dell’allievo e per l’aiuto che poteva essergli offerto. Un modulo “formulato secondo i dettami assegnati alla moderna pedagogia scientifica”, al quale si attribuivano “ovvii vantaggi” per i soggetti in difficoltà. Un metodo diagnostico da cui, si diceva, “avrà inizio il funzionamento di un’istituzione veramente necessaria la quale non potrà fare a meno di dare notevoli frutti”. Ancora oggi siamo convinti che debbano essere gli insegnanti, forti della conoscenza dei rapporti intercorrenti fra i processi di istruzione e di educazione, dei processi di sviluppo intellettivo-affettivo dei giovani, delle loro possibilità e funzioni in via di formazione, a promuovere una diagnosi capace di indirizzare un intervento preventivo e, nel caso se ne presenti la necessità, una precoce, tempestiva, azione educativa mirata. Una diagnosi non affidata all’empirismo, bensì capace di offrire valori comparabili e perciò di suggerire scelte serie di prassi educativa, che solo l’insegnante, in un rapporto di empatia con il bambino, è in grado di formulare. Una diagnosi che non necessita di sottoporre a prove l’allievo, ma si limita a osservarlo nei vari momenti-gioco individuali e collettivi e nelle attività di studio e di lavoro proprie dell’ambiente educativo in cui egli si trova. In tal modo si ha inoltre la possibilità di conoscere l’entità del disagio o delle difficoltà del soggetto in relazione al gruppo di appartenenza e si può identificare l’orientamento metodologico più idoneo, nonché assumere un più opportuno atteggiamento educativo. L’insegnante non ha bisogno di strumenti, di schede di valutazione, poiché non deve valutare bensì conoscere l’allievo, apprendere da lui. Può sembrare un paradosso, una contraddizione, se si pensa a quanto poco gli insegnanti sono abituati a essere disponibili ad apprendere dall’altro. Ma è bene che si cominci a insegnare solo dopo che si è imparata la lezione. Bisogna assolutamente tenere in considerazione che ogni allievo, nonostante le sue difficoltà, comunica e invia all’insegnante eloquenti messaggi che questi è tenuto a decodificare. Ma per fare questo sono necessarie un’approfondita conoscenza dell’alunno ed una provata esperienza professionale.
I messaggi che l’allievo può inviare sono molti. Si tratta di informazioni consce e inconsce, espressioni dell’immagine che ha di sé, del modo in cui si percepisce e valuta se stesso, tramite le quali egli cerca di farsi capire. La comprensione di questi messaggi richiede di andare a fondo a ogni fatto, anche a quelli che possono sembrare troppo modesti o addirittura insignificanti per essere presi in considerazione.
Apprendere dall’allievo permette all’insegnante di evitare qualunque presupposto clinico-nosografico per individuare immediatamente, stando con lui, ciò che lo favorisce e quindi aiutarlo. In questo risiede il grande valore di una diagnosi che può essere condotta dal docente e che, di certo, non ha il sapore dell’indagine o della valutazione, ma cosa molto importante, è lontana dalle categorizzazioni patologiche.
Guido Pesci
L’insegnante unico. Contributi scientifici a confronto.
Armando Editore. Prefazione
La vasta mobilitazione e l’animato confronto politico a cui stiamo assistendo in questi ultimi mesi sulla prevista riforma della scuola, e in particolare sul ripristino dell’insegnante unico nella scuola primaria, sta registrando un forte impegno su più fronti per contribuire, con significativi argomenti di pensiero e principi innovatori di dottrina e di pratica, alla realizzazione di una scuola diversa. Il grande interessamento e il serrato confronto mostra come il dibattito sulla scuola non interessi soltanto una semplice strategia di riforme, ma investa fortemente e largamente la società, portandoci così a prendere atto di quanto questa sia afflitta da una profonda mala-educazione e sia quindi obbligata a rinnovarsi per approdare ad un vero e proprio rinascimento educativo.
Il confronto politico è particolarmente incentrato sulla scuola primaria, a cui si riconosce l’alto valore formativo per una equilibrata evoluzione dell’uomo, la quale può scaturire unicamente da un clima simpatetico di scambio capace di ingenerare e favorire la curiosità e la tendenza alle relazioni sociali e sentimentali. Ed è proprio la consapevolezza dell’importanza che assumono le scelte da fare ad animare la disputa politica, sostenuta purtroppo più dall’opinionismo che non da presupposti scientifici. Ciò che infatti sembra sfuggire è che la scuola dovrebbe essere un’istituzione pedagogica, una comunità in cui fare appello alla pedagogia, una scienza che, per l’estensione dei suoi principi, è di vitale importanza per l’uomo e per la società.
La scuola dovrebbe essere un luogo in cui, conservati i principi pedagogici, poter incontrare non più un maestro che “insegna”, bensì un pedagogista capace di offrire l’opportunità al bambino di apprendere in un clima armonico, di attenuare la primaria identificazione emotiva con la famiglia per proporsi con una lenta e graduale partecipazione attiva al gruppo e alla vita sociale, di aiutarlo a scoprire la validità delle connotazioni del rispetto e della collaborazione.
Ma attualmente nella scuola, intesa luogo in cui si insegna o addirittura si “istruisce”, come proclama il Ministero competente, si sta assistendo alla dispersione dei valori educativi e al dilagare della prepotenza, delle prevaricazioni e di atti non riconducibili esclusivamente al bullismo. Di fronte a questo quadro a dir poco scoraggiante, vien fatto di riflettere come sia indispensabile arginare l’imperizia di quanti pensano che per aiutare il bambino ad apprendere si debba solo ”insegnare o istruire”, limitandosi a fare e far fare. L’abilità indispensabile a chi si occupa dell’evoluzione dell’uomo non può più essere il far apprendere l’esclusivo sapere specialistico delle materie, ma il saper dare, quel dare che si basa su una preparazione pedagogica, e che è foriero di un autentico sviluppo in equilibrio. Si impone dunque una svolta coraggiosa, un cambiamento radicale, che parta dal creare un Ministero non più dell’Istruzione ma dell’Educazione e dall’avere in cattedra non più insegnanti ma pedagogisti.
Da troppo tempo chi è impegnato nella ricerca sta assistendo ad una situazione che sta diventando sempre più inadeguata. È giunto il momento di impedire la presenza di insegnanti (ovviamente non tutti) sarcastici, autoritari, inclini al pettegolezzo e al favoritismo, nervosi e a volte rabbiosi, portati ad alzare il tono di voce, capaci di rimproverare l’allievo davanti a tutti i compagni usando lemmi non certo ricchi di attenzioni pedagogiche, come “svogliato”, “fannullone”, “disattento”, “cialtrone”…, oppure che credono ciecamente a quel far fare − “… l’esercizio gli scioglie la mano”, “leggere venti pagine tutte le sere” −, quell’agire su coercizione a ripetere per imitazione passiva e automatica di esercizi che ha il sapore dell’ammaestramento e che non dimostra altro che inadeguatezza educativa, cecità di fronte ai veri bisogni del bambino, incapacità di aiutarlo a sviluppare le sue potenzialità e abilità invece di soffocarle. Tale inadeguatezza è confermata, come ha evidenziato una nostra indagine, anche da comportamenti inadatti fuori della scuola, nella comunità locale e nella società.
Il pedagogista sa aiutare il bambino a sviluppare il senso di partecipazione attiva alla vita, ne individua e sostiene il talento, le attitudini, il carattere, gli interessi. Il contenuto reale della pedagogia sosta nel principio che l’allievo, come la società, ha un accanito bisogno di educazione e chi educa ad apprendere, deve saper stare in relazione al gruppo nel rispetto di ogni componente, essere in grado di indirizzarsi ad essa con grande plasticità di forme comunicazionali e ricchezza di contenuto psico-affettivo. L’interesse pedagogico nella scuola primaria si pratica e vigila sull’evoluzione progressiva del conoscere e del sapere raggiunto per mezzo di esperienze, in vista della formazione progressiva dell’individualità del bambino. L’apprendere pedagogico si sollecita con l’assimilazione delle nozioni scolastiche ottenuta nel piacere affettivo degli scambi e mediante una molteplicità di stimoli sollecitatori e informatori che non trascurino la necessaria armonia fra parole, mezzi visivi, silenzi, occasioni di riflessione e interrelazioni fra componenti sensoriali e componenti logiche, offerte con la consapevolezza che anche una piccolissima variazione del tipo di esposizione verbale da parte del pedagogista può determinare una evidentissima variazione nell’assimilazione delle nozioni e nei risultati dell’insegnamento.
Al pedagogista non basta inseguire un progressivo processo metodico di educazione intrinseca allo sviluppo del bambino, egli deve caratterizzarla in modo coerente nel rispetto della personalità di quest’ultimo.
L’apprendere dell’allievo deve maturare in un rapporto di accoglienza, termine di congiunzione fra lui e il più ampio e vario mondo esteriore al quale bisogna promuoverlo senza indirizzarlo munendolo di consigli, ma riconoscendo e valorizzando le sue grandi, numerose e uniche potenzialità, e accompagnandolo passo passo, con adeguati stimoli alla riflessione e attraverso l’utilizzo di ogni codice semiotico, a scoprire che ha in sé la possibilità di raggiungere una vera crescita personale.
L’apprendere dell’allievo ben si coniuga dunque con l’apprendere dall’allievo, con il saperne leggere le attese, la spontanea curiosità, i desideri di conoscenza, le invocazioni di un intervento attivo, con il raccogliere e analizzare tutti gli elementi e gli aspetti con cui la sua personalità si va manifestando.
I messaggi che l’allievo può inviare sono molti. Si tratta di informazioni consce e inconsce, espressioni dell’immagine che ha di sé, del modo in cui si percepisce e valuta se stesso, tramite le quali egli cerca di farsi capire. La comprensione di questi messaggi richiede di andare a fondo ad ogni fatto, anche a quelli che possono sembrare troppo modesti o addirittura insignificanti per essere presi in considerazione. La lettura di questi segnali inviati dal soggetto e di ogni altro dato rilevabile costituisce per l’insegnante uno strumento privilegiato e imprescindibile per disciplinare la programmazione, introducendovi tempestivamente tutte quelle modificazioni o integrazioni che risultassero opportune. È generale ormai la convinzione che per garantire il rispetto dell’individualizzazione didattica, occorre perseverare in una diagnosi che tenga conto di tutto il processo educativo. Soltanto in tal modo è possibile far seguire all’evoluzione maturazionale le variazioni eterocroniche e armoniche. Tutto questo dovrà far parte del delicato bagaglio del nuovo insegnante.
Un qualificato cambiamento si rende infatti non più necessario, ma urgente. Da un esame comparativo sulla condizione sociale e sulla gerarchia occupazionale degli insegnati, emerge che essi occupano una posizione superiore soltanto agli impiegati di banca e agli operai specializzati. Rappresentano un gruppo-chiave ma, nonostante si riconosca e si attribuisca loro una immensa importanza, la stima che in termini sociali ed economici viene loro attribuita è assai bassa. Bisogna quindi riconquistare quella considerazione, quell’autorevolezza e quella provata capacità professionale che si riconosceva al maestro già nel 1900, al punto da richiedergli una conoscenza dell’allievo talmente profonda da fargli redigere la Carta Biografica contenente tutti i dati raccolti su di lui.
Per riconquistare uno status professionale che ottenga ampio riconoscimento da parte dell’opinione pubblica, l’insegnante deve mostrare di possedere le doti di carattere e di personalità richieste per l’esercizio della professione, una formazione specifica che gli consenta di perfezionare le competenze e un nuovo spirito deontologico veicolato dall’istanza di rinnovamento della scuola e della pratica educativa. Egli deve essere consapevole del fatto che in ogni incontro con i propri colleghi può apportare un contributo prezioso e di quanto sia indispensabile coinvolgere nel processo educativo la famiglia e colmare con un sapere professionale il bisogno di conforto e di fiducia. Impegni e confronti, contrapposti all’incontro dal sapore burocratico, che l’insegnante deve essere in grado di sostenere per uno scambio che si basa sulla collaborazione e in specie, sullo stile, la preparazione professionale e lo sviluppo del senso di responsabilità. I genitori degli allievi, i colleghi, tutti si aspettano dei confronti seri, delle risposte coerenti, che richiedono esperienza, nonché una profonda conoscenza dell’allievo, in particolare di quello che mostra difficoltà e disagi. L’insegnante deve avere acquisito le abilità necessarie per sapere quali sono i suoi impacci, le sue inadeguatezze, i suoi freni, le sue inibizioni, tutto ciò che lo ostacola e lo rende insufficiente negli apprendimenti, inadeguato nei comportamenti; deve mostrarsi interessato all’intera personalità del bambino in tutte le sue manifestazioni.
Su tali concretezze si deve consolidare l’intesa educativa e si devono basare gli interventi educativi per rendere vero l’aiuto individualizzato, si possono informare puntualmente i genitori su come viene promosso il corretto coinvolgimento in risposta ai bisogni dei loro figli, dimostrando ad essi e alla società di essere degli specialisti, recuperando così un clima di fiducia e di intesa.
Per conseguire uno status adeguato gli insegnanti devono quindi possedere innanzitutto ottime qualifiche pedagogiche e partecipare a corsi di alta specializzazione. Nell’affermare questo, però, ci rendiamo purtroppo conto del fatto che non esistono più le Facoltà di pedagogia. Nella logica dipartimentale della legge n. 28 del 1980 non fu più accettata la Facoltà di Magistero; seguirono diverse querelle sulla definizione di Facoltà di Scienze dell’Educazione e Facoltà delle Scienze Umane, finché si optò per i “Corsi di laurea”. Da allora la formazione in pedagogia si è eclissata. Oggi, infatti, si lamentano il grave ritardo delle scienze pedagogiche, ormai sterili e non propositive per progetti importanti, l’assenza nelle Università di una ricerca pedagogica autrice di metodi, di tecniche, di tecnologie e di strumentari, carente nel promuovere esperienze formative nei laboratori di gruppo che permettano ai partecipanti di vivere, sperimentare e sviluppare l’ascolto di se stessi e dei propri vissuti, l’andamento delle relazioni e la disponibilità nelle intese, vincere ogni disagio psico-relazionale e acquisire disponibilità al rapporto con gli allievi. E la stessa formazione del pedagogista, ormai raramente passa attraverso l’Università. Egli per costruire itinerari formativi professionalmente congruenti e per essere in grado di “sostare nella relazione” e di “acquisire e utilizzare strumenti diagnostici idonei alla prevenzione e metodologie concrete e adatte all’intervento educativo”, come si legge nell’art. 7 dello Statuto del Sindacato Nazionale Pedagogisti (SINPE – www.sindacatopedagogisti.it), deve rivolgersi ad Enti autonomi riconosciuti e apertamente impegnati in questo settore. Del resto soltanto se l’insegnante dimostra di essere un professionista specializzato al punto da correre il rischio (?) di soddisfare gli utenti, può mettere a tacere la diffusa opinione che si dedica all’insegnamento chi vuole un lavoro sicuro o chi non è capace di fare nient’altro e dunque non merita un trattamento migliore.
La politica educativa ha quindi l’obbligo di aggiornare e riqualificare gli insegnanti, tenendo conto degli studi scientifici e della ricerca che hanno prodotto nuovi metodi, tecniche e tecnologie innovative, per condurli ad acquisire una professionalità non meno adeguata e accreditata delle altre, promuovendo altresì una parallela politica di incentivi economici.
Elevare lo status professionale degli insegnanti rendendoli abili pedagogisti. Questo è ciò che ragionevolmente si deve perseguire e, forse, con una più rilevante preparazione e diverse abilità si potrebbe decidere più opportunamente se optare per l’insegnante unico o per un team modulare. Se poi si riuscissero ad eliminare gli sprechi e a destinare i fondi a retribuzioni che possano incoraggiare il ritorno alla professione anche di pedagogisti maschi, avremmo soddisfatto perfino la necessità di mantenere viva l’identità sessuale dei nostri bambini. Ma questo è un argomento che occuperà altre pagine.
Guido Pesci
Scuola che cambia.
Magi Edizioni. Prefazione
La società organizzata ha l’obbligo di assicurare una scuola in cui l’educazione sia considerata il bene più prezioso della nazione, con esperti altamente qualificati, adeguatamente retribuiti e pienamente soddisfatti delle condizioni in cui si svolge il loro lavoro. Una società che vuol vincere questa sfida e raggiungere un alto grado di maturazione, necessita di insegnanti che hanno cura di insegnare a se stessi, acquisito dall’arte educativa quella spinta idonea alla cooperazione e la consapevolezza che ogni errore dello scolaro è un errore dell’insegnante. Nel guardare avanti si comprende che aumenta il bisogno di insegnanti seriamente preparati all’esercizio della professione, e l’obbligo di superare gli ostacoli che si frappongono alla loro seria preparazione.
La politica educativa e lo sviluppo da imprimere all’educazione è la chiave di questa impresa, il futuro dipende dalla capacità di ritrovare l’ordito per un cambiamento della prospettiva nel processo educativo. Solo una preparazione migliore, adatta ad una società sempre più differenziata e complessa può offrire una diversa prospettiva alla professione insegnante e assicurare alla società un professionista apprezzato socialmente, per una carriera che potrà divenire più promettente e remunerativa. Un aumento importante degli stipendi che permetterà di vedere reintrodotta la figura maschile ed evitare i rischi per gli allievi maschi di eternare il vivere in assenza di identità sessuale.
Se vogliamo che gli allievi trovino nella scuola il piacere, la motivazione, l’occasione per un arricchimento personale e interindividuale ed invertire la tendenza a vivere nell’esigenza di sopraffare e di aggredire, è obbligo un riesame profondo delle condizioni educative e organizzative nelle quali si apre il processo di apprendimento.
Quello che stiamo trascorrendo è senza dubbio il periodo storico più delicato, una fase in cui la qualificazione accademica non ha mantenuto il passo che sarebbe stato necessario per lo sviluppo della tecnologia educativa e non ha praticamente perseguiti i concetti pedagogici di apprendimento collettivo e di programma individualizzato.
In questa scarsità di un sapere e saper fare in una dinamica del dare si è fatto spazio l’aggressività dell’industria dell’educazione, che, senza fatica si è potuta ben inserire nel circuito acritico della scuola, dove in assenza di una ricerca e sperimentazione che potessero verificare con serietà scientifica la validità delle proposte, tutto è stato accolto. Una scuola acquirente di materiale e di macchine per insegnare che, pur nello sconforto dei risultati, continua ad essere, per quel mercato, garanzia di ricco realizzo economico. Prodotti per strategie educative fallimentari, esse hanno imposti agli allievi modelli standardizzati, offerti formulari stereotipati, li hanno visti obbligati a stare seduti, a seguire percorsi di apprendimento programmato con le schede imposte dall’industria dell’educazione, che ha portato la scuola a dover far fronte per le fotocopie e l’acquisto di fotocopiatrici, ad una voce di spesa fra le più alte, a cui si sono aggiunte quelle per i personal computer con programmi “speciali” per aiutare i disabili e gli scolari con Disturbi Specifici dell’Apprendimento e che piace appellare per ingiustificata ignoranza dislessici. Un impatto massiccio di materiali per stimoli percettivi proposti a soggetti seduti ad un banchino o separati in aule “speciali”, che dominano sull’educazione e decidono le sorti di un sistema educativo. Materiali per insegnare, monetizzati e scambiati per educativi, che hanno interrotto la mediazione dell’insegnante con il gruppo, impedito di favorire costrutti psicodinamici per occasioni di scambio simpatetici.
Gli allievi non hanno bisogno una scuola che si propone di selezionarli secondo criteri negativi nell’intento di risolvere i problemi in termini puramente quantitativi dello sviluppo infantile ricorrendo a metodi di insegnamento-ammaestramento. Essi si appellano ai principi pedagogici che si integrano al desiderio di cambiamento urgentemente necessario per tutti e ancor più per coloro che dichiarati disabili e “affetti” da Disturbi Specifici dell’Apprendimento, chiedono con maggior forza alla scuola di avere la chiave per aprire alla trasformazione del «meno» del deficit nel «più» della compensazione, di offrire l’opportunità all’allievo di scoprire e ritrovare in se stesso le forze e le energie da impegnare nel conoscere e nell’apprendere. Allievi che trovano intorno a sé un clima di anormalità sociale che impone loro un cambiamento nel rapporto con la realtà, l’allievo diviene un allievo speciale e nei suoi confronti s’instaura un rapporto esclusivo, insolito, diverso da quello che si ha con gli altri bambini.
Definito diverso la scuola può ridursi a promuovere per lui una educazione non individualizzata ma separata, i suoi rapporti, il suo ruolo e il suo destino come individuo “speciale”, si ristrutturano secondo una nuova ottica e si traduce nel profondo turbamento di tutto il sistema dei rapporti sociali. La chiave in mano alla scuola per aprire con un criterio pedagogico alle necessità degli allievi in difficoltà è stata utile solo a spalancare la porta alla malattia e chiedere per loro delle etichette sgargianti di competenza sanitaria. I problemi di allievi che frequentano la scuola e che affiorano nel contesto scolastico per carenze nelle risposte ad apprendere e alterazioni comportamentali sono stati posti nei limiti angusti di un dato organismo. Considerati come problemi biologici sono stati sfidati con esercizi e strumenti ausiliari, senza tener conto che il deficit organico dell’uomo, a differenza dell’animale, non può mai influenzare direttamente la personalità, sulla quale gravano i cambiamenti sopravvenuti nei rapporti sociali, la lussazione sociale che si è determinata. La scuola conformata all’opinione comune che l’allievo in difficoltà è un malato, ha innescato una divisione anticipatoria ed indiscriminata fra soggetti in capaci e incapaci e perciò diversi, una etichetta classificatoria la cui degradazione sociale più che la difficoltà in se stessa decidono le sorti della sua personalità. Un marchio, una barriera che generano l’obbligo in una società civile di abbatterle per favorire l’enorme riserva di salute presente in ciascuno. L’insegnante, che non è un operatore sanitario, ha il compito di non adattarsi alle carenze dell’allievo, né limitarsi ad un intervento basato su elenco tecnicistico di esercizi esposti su schede o su monitor, per suggerire esperienze originali, impiegare combinazioni di scambio capaci di orientare l’allievo nel mondo di relazione, favorire l’intesa e dare sapore alla vita. Per ottenere questi successi è la scuola che deve raccogliere in maniera sistematica e continuativa informazioni relative allo sviluppo dei quadri di conoscenza e di abilità, di ogni allievo. Il complesso delle osservazioni sistematiche, provato che ogni valutazione degli altri è una astrazione con la pretesa di obiettività, adatta solo ad un essere umano concepito come la struttura di una macchina, costituirà lo strumento privilegiato per la regolazione della programmazione, permettendo agli insegnanti di riscontrare le reazioni compensative in atto e di introdurre per tempo quelle modificazioni o integrazioni che risultassero opportune.
Per aiutare l’allievo non occorre l’etichetta di dislessico, se vogliamo garantire il rispetto della individualizzazione didattica, bensì prendere coscienza e conoscenza di tutti i suoi livelli di sviluppo prevenire e vincere ogni eterocronia e svantaggio, ogni forma disarmonica di sviluppo, soddisfare ogni esigenza psicologica e educativa. L’insegnante deve conoscere l’allievo senza la necessità di segnature metriche, senza voler spiegare la realtà umana riconducendo ogni fenomeno ad una unicità e totalità causale, ad una mera descrizione di abilità e disabilità e la loro misura, nel tentativo di ricavare una classificazione nosografica. Conoscere le potenzialità, le abilità e le disponibilità, le caratteristiche psicofisiche e lo stile comportamentale, senza la necessità di distribuire punteggi, di raggiungere una misurazione, senza la necessità di prove di esame concretizzate in un fiscalismo protocollare. Per riferirsi all’allievo occorre individuare e comprendere l’origine e il valore di ogni sua manifestazione, senza il rischio di ridurre alla sola logica formale delle classi e dei livelli, studiare i significanti nei loro rapporti con i significati, fatti reali e vivi in quanto hanno un significato e questo significato è dato dalla tensione che si istituisce tra l’elemento psichico e fisico, soggettivo e oggettivo. Ogni espressione, ogni comunicazione ha il significato di precisare, nella traduzione semantica, i rapporti referenziali, i sentimenti e le emozioni, connessi ai segni verbali, ai suoni, alle posture, alle distanze, ad ogni linguaggio cinesico e paralinguistico, sicuramente diversi dall’imitazione psittacistica rilevata dalla semplice indagine finalizzata alla rigida valutazione. Non possiamo quindi limitarci ad una raccolta di dati per la scelta di un certo quadro sindromico che annulli l’identità dell’allievo scolaro, per giungere ad una considerazione globale, occorre conoscere, stando assieme, la polidimensionalità della grammatica espressivo-comunicazionale che lo caratterizza, la sua struttura psico-fisica e la sua personalità, modellati sulle sue difficoltà. Ogni pezzo della sua maturata autoinsufficienza, della sofferenza per essere considerato diverso, gli effetti negativi della sua esclusione. Ciò che feconda l’essere emozionalmente debole e psichicamente fragile è esposto nel testo con cui l’allievo narra di sé, l’esposizione dei bisogni con cui cerca di farsi capire, un testo che va analizzato, letto, secondo i programmi narrativi, le sue funzioni semantiche e sintattiche, un racconto offerto per mezzo di stili diversi e con note di emertismo. Un libro che ci offre in lettura idiomi del corpo, codici o isolati cinesici e sememi motori, nebulosi paralinguismi, il campo semiologico delle passioni, delle sensazioni ed emozioni o feelings, espresse con la grammatica e la sintassi della meraviglia, la felicità, l’interesse, la sorpresa, ed ancora paura, collera, odio, vergogna, disprezzo, disgusto, tristezza.
Uno studio dinamico, un procedere per dare una definizione positiva dell’allievo, percepire la sua originalità qualitativa, apprendere dalle difficoltà e i disagi, interpretare la struttura interna della personalità determinata da essi, una analisi dei bisogni per originare suggerimenti operativi non più limitati ad una descrizione negativa dell’allievo.
Centro e perno dell’impegno pedagogico deve tornare ad essere l’allievo, le capacità, le attitudini, le disponibilità, per incoraggiarne l’originalità, la creatività, potenziare in senso individuale e integrato in uno schema collettivo.
Nessuna pratica educativa può essere suffragata da definizioni e basi puramente negative, bensì proporsi in concreto, basarsi su una solida metodologia, per compiti teorici e pratici positivi. Tener conto della ricchezza della riserva reattiva, favorire un processo creativo di strutturazione e ristrutturazione della personalità, provvedere alla
creazione di nuovi percorsi alternativi di sviluppo.
Il pedagogista impegnato deve avere appreso che soggetti con abilità diverse possono raggiungere lo stesso livello, in un altro modo, per un‘altra via, con altri mezzi, ed è obbligato a individuare e conoscere lo speciale percorso lungo il quale deve condurre il bambino. Il sentimento degli allievi verso la scuola dovrebbe poter essere rintracciato nell’invito di Vittorino da Feltre: “Entrate allegramente fanciulli, qui si gioca e non si tormenta”, una scuola partecipata con entusiasmo, in cui sia garantita la compensazione, in quanto reazione della personalità al disagio e alle difficoltà, e che dà inizio a nuovi processi alternativi di sviluppo, sostituisce, integra e addiziona le funzioni psicologiche. Ogni esperienza educativa deve promuovere uno stato di intima gioiosità se la noia è, come ha detto Herbart, il peggior peccato dell’istruzione, deve essere raccolta nel gioco, nel libero combinarsi di tutte le facoltà dei suoi pensieri diretti a dare corpo in una forma soddisfacente alle sue immagini ed ai suoi interessi, un apprendere reso più facile nella libera espansione di attività fisiche e psichiche che sviluppino impulsi naturali.
L’allievo ha bisogno di essere aiutato a trovare in se stesso, nelle proprie potenzialità, le abilità e la disponibilità ad imparare. Per questo occorre che sia messo nella condizione di sentire il bisogno di compiere le attività richieste; una voglia di imparare che è possibile far nascere solo insegnando poco, per lasciare spazio ad un intervento attivo che accresca l’interesse e l’impegno. Un apprendere che può venir soddisfatto e assicurato a tutti se evitiamo di annoiare gli allievi, se si tiene conto dello stato di necessità di ciascuno, se inseguiamo il principio del consolidamento e dell’integrazione e si evita di seguire alla lettera e con scrupolo i programmi.
La società della globalizzazione impone alla scuola di avere insegnanti preparati a fronteggiare problemi diversi, con nuovi metodi e differenziate abilità nelle relazioni studenti-insegnante, una formazione e un aggiornamento rivolti non ad insegnare questa o quella materia ma, soprattutto a promuovere la capacità di imparare ad imparare. Il fondamento primo è di preparare non l’insegnante ma il pedagogista, una persona capace di leggere ogni necessità e favorire lo sviluppo individuale degli allievi. Saper cogliere ogni elemento testimoniale di padronanza e dipendenza, saper tradurre i diversi sememi comunicazionali, dimostrare abilità nel favorire un’atmosfera di collaborazione e di intesa fra se e gli studenti e fra compagni, basare il concetto di “autorità” sulla sicurezza personale, sulla stabilità emotiva, su nuovi principi di dinamica che implicano un nuovo senso della professione. Si tratta di una conquista pedagogica con conseguenze importanti, da rendere possibile l’evoluzione dell’insegnamento in una professione specializzata. L’esigenza vitale di relazioni pedagogiche che la psicologia applicata assicura, suffragate dall’abilità a penetrare il mondo dello studente e di comprendere le differenze con cui si testimonia.
Nuove abilità e disponibilità per una società che affida all’insegnante la responsabilità di proteggere e di arricchire la sua eredità culturale, un cambiamento comportamentale, una padronanza ed equilibrio personalogico con il suffragio di una forza ergica che possa fare onore.
A questi obblighi nell’acquisire diverse disponibilità alle intese e agli scambi è da associare tutto ciò che giunge all’educazione dall’ausilio delle nuove scienze, la necessità sempre crescente di familiarizzarsi all’utilizzo di stimoli multipli, offerti al gruppo ricchi di effetti suggestopedici, in un’atmosfera che consente ad ogni partecipante di imparare da tutti gli altri.
La quantità e serietà delle ricerche che vanno a sostanziare nuovi metodi e che attribuiscono importanza all’apprendimento piuttosto che all’insegnamento, consolidano sempre più l’educazione come scienza autonoma e ne definiscono il prezioso contributo, traendo un forte impulso alla richiesta di abolire il Ministero dell’Istruzione per un Ministero dell’Educazione e il pedagogista l’artefice nella scuola dell’educazione dei nostri figli. Per apprendere, come conferma la ricerca e la sperimentazione, occorrono metodi diversi che dimostrano come gli studenti possono apprendere con profitto se offriamo loro un’alternanza di periodi di studio individuale con periodi di studio in gruppo, con un effetto di maggior successo in questo ultimo, e se il pedagogista è capace di assumere una grande varietà di ruoli.Nello studio in gruppo ogni membro costituisce un sostegno per tutti gli altri, e, aiutati dalla guida sicura di un insegnante, il clima si mantiene favorevole alle intese e idoneo ad evitare inconvenienti di conflittualità sociale. Per un tale impegno al pedagogista è richiesto di essere un brillante espositore, avere assunto abilità nello stimolare e sostare in dinamica gruppale, esperenziato abilità comunicazionali diverse, acquisito una conoscenza di sé, una tranquillità emotiva per fronteggiare ogni concerto di relazione.
Un apprendimento collettivo che vuole offrire esperienze multiple, evita di far stare i bambini fermi, seduti davanti al libro, quaderno o computer, incoraggia la competizione e stimola il desiderio di far bene. Se si tratta di aiutare l’apprendere a scrivere, ad esempio, saranno di ausilio le pareti, il pavimento, lo spazio della palestra, del giardino… Una esperienza perseguita facendo vivere agli allievi in coralità le lettere dell’alfabeto, sillabe e parole… pronunciate e scritte dall’insegnante su parete e poi in una specie di canticum ripetute in sequenze metriche, con un ordito tonematico e un gesto che le rappresenta nello spazio vuoto, facendo precedere l’impiego dell’udito o quello della vista. Un apprendere giocando già pienamente riconosciuto sia in Grecia che a Roma dove erano previste ricompense per i successi con pasticcini dalla forma di lettere. Anche il ripasso di lettere «preformate» come le definiva Quintiliano, tracciate leggermente «hypogrammata», cioè «scritte sotto», o realizzate con il tracing, non dovranno essere ripassate su schede A4 che, come si vede non sono certo una novità, ma proposte al gruppo e richiesto di tracciarle in forme macro per garantire il confronto, lo stimolo dell’imitazione, l’emulazione e con l’esperienza propriocettiva del gesto, aver garantita l’abilità a tracciare con diverse intensità di pressione. Le lettere dell’alfabeto, per favorire il piacere e il fixage mnestico, in un gioco corale, saranno scritte una dopo l’altra con il contributo di ciascuno su pareti o al suolo, orizzontalmente o disposte verticalmente in colonna, nella successione normale o partendo dall’ultima, oppure saranno scritte su due righe diversamente orientate, a cui potranno seguire tante variazioni comprese le abbreviazioni usando P per Paolo, C per Carlo…Allo scopo di migliorare la pronuncia esperienze corali suggeriscono di far ripetere agli allievi elenchi di suoni privi di significato, parole monosillabiche, parole di due, tre o più sillabe, ricerca ed esposizione di nomi propri, parole comuni o nomi di persone famose, versi scherzosi, veri e propri scioglilingua, esposizioni verbali con effetti scansori e ausili tonematici, arricchite da drammatizzazioni, momenti ludici in cui, quando riescono ad impadronirsi e a padroneggiare i suoni, vivere il senso di soddisfatta realizzazione. L’esperienza della lettura può essere proposta al gruppo chiedendo di esporre i suoni di parole scritte su parete senza interruzione, e di interrompersi al compimento di ciascuna parola, aiutati dall’insegnante e dai compagni. Divenuti abili nella decodifica scrittoria verrà loro richiesto di leggere brevi testi poetici proiettati su parete, aiutati dalla metrica e dalla accenti. Il valore pratico si dovrà fondere con il valore morale perciò le esperienze di lettura e di scrittura conterranno utili osservazioni sulla vita o sul comportamento dell’uomo, esortazioni o ammonimenti per vivere nel rispetto degli altri, in similarità a quelle che erano le «massime» (gnomai, sententiae) morali che abbondavano nella poesia didascalica e drammatica dei Greci e fornivano una messe di concise riflessioni sulla vita umana. Citazioni e massime che possono essere elencate, una dopo l’altra, secondo la lettera iniziale, per formare una «gnomologia», un libro di lettura o un modello scrittorio sicuri stimoli alla riflessione. A proposito si ricordano, dalla raccolta di Menandro, i princìpi: «La cultura degli uomini è un bene che nessuno può rubare»;«Attraverso l’educazione tutti ricevono la civiltà»; «Sebbene ricco, se sei pigro sarai povero»; «Onora i tuoi genitori e tratta bene i tuoi amici»; «Non vi è tesoro più prezioso di un amico»; «Considera le sventure dei tuoi amici come tue»; «Nessun bugiardo rimane a lungo senza essere scoperto»…principi e massime che certo non inducono al bullismo. La scuola deve essere una fucina di ricerca, gli insegnanti a conoscenza di tutti le nuove idee, i nuovi metodi e le nuove tecniche, i nuovi materiali, ma, in particolare, devono essere aggiornati sullo svolgimento e le finalità dell’educazione, ritrovare e saper mantenere un rapporto di intesa con gli allievi modellato su originali combinazioni di scambio, capaci di favorire la motivazione nell’apprendere. Insegnanti orientati a promuovere percorsi educativi in armonia con le esigenze dell’allievo, refrattari alle pastoie falsificatrici coibenti dell’addestramento.
Nella scuola si dovrà concretizzare una attività educativa e didattica in opposizione alle classificazioni di campionature per difficoltà specifiche di apprendimento, in cui troppi intendono assegnare gli allievi, che sappia evitare interventi di pedagogia terapeutica, di ortopedia psichica, e di cultura sensoriale, traducendo l’individuo in una parodia senza interessi. L’educazione se agita nel rispetto dell’individuo, non può basarsi su una invilente azione correttiva improntata su modelli ripetitivi di addestramento, su trattamenti gravati di terapeuticità e stimolatrici di esordi riabilitativi, essa deve offrire una partecipazione di vissuti, di scambi comunicativi, muovere verso dinamiche collaboratrici e rassicuranti. Indirizzi educativi che non si realizzano imponendo al soggetto gesti meccanici, perseguiti nel rispetto di un obbligato silenzio, o chiedendo all’allievo di esprimersi e comunicare con mezzi che non possiede, convinti che queste inadeguatezze educative possono solo aumentare in lui un senso di discredito, di sfiducia, mortificazione, delusione e frustrazione, premesse per ulteriori e più clamorose sconfitte.
La sofferenza fisica, psichica ed emotivo-relazionale, la confusione organizzativo-apprenditiva hanno necessità di trovare nella scuola reali modificazioni e questo è possibile solo se agli insegnanti vengono suggeriti e descritti quei metodi di intervento educativo e didattico che la ricerca scientifica ha realizzato. Metodi la cui utilità, efficacia e valore, permetteranno all’allievo di superare gli ostacoli e, in una diversa realtà scolastica, l’occasione di trasformare gli obiettivi da ambìti e desiderati in obiettivi raggiunti. I metodi a cui ci riferiamo, sono scaturiti dalla ricerca e dalla sperimentazione per una scuola che possa fare progredire e preparare alla vita gli allievi senza annoiarli chiedendo loro di stare seduti davanti a strumenti dell’educazione, senza tirannide per la richiesta di una crescente efficienza prima che questa venga raggiunta o conquistata, fabbrica di utensili non vivaio di attività spirituali e creatrici, come direbbe Croce.
Gli allievi, da impulsivi, incostanti, curiosi, chiacchieroni, amanti del gioco e dei racconti, delle fiabe…tendono naturalmente verso uno stile di vita che gli è proprio, perciò devono essere aiutati a conquistarsi, a sapersi organizzare, a sentire il bisogno di compiere azioni e con esse esperienze e conoscenze, arricchimenti perseguiti nella ricerca del piacere e di stimoli motivazionali.
Sull’onda del rispetto di queste esigenze degli allievi si sono strutturati i nuovi metodi per una scuola dell’educazione che si innovi per genere e contribuisca ad un utile sociale, ad una prospettiva futura in cui anziché istruire asserviti ai valori negativi ci si muova tenendo conto delle esigenze di ogni allievo e le vie di piacere attraverso le quali liberare ogni aspetto positivo della loro personalità.
Una scuola per apprendere sorta da un lavoro creativo di ristrutturazione, in cui sono obliate le lezioni a comando, dal carattere forzato, ripetuto ed invilente, per lasciare spazio al gioco, alle esperienze suscitate da necessità, pregne di significato, idonee a sviluppare, affinare e rappresentare tutte le abilità dell’allievo riconosciuto come persona globale, unità complessa, piena di risorse interiori, rivolte a favorire il desiderio e la possibilità di scambi comunicativi. Una concretezza che, dalle esperienze raccolte, è possibile soddisfare con metodi e strategie diverse, idonee a dare equilibrio ad un sistema ancora turbato da una integrazione arida e distratta del fare, che per troppo tempo ha trascurato l’aspetto nutrizionale del dare. Ci sono prove inconfutabili ormai di come poter giungere ad una conversione in cui il dare è l’originale integratore, capace di sviluppare i significati soggettivi in significati condivisi, di organizzare con accessi polieducativi, sequenze di azioni adatte agli individuali bisogni educativi e ai personali ritmi di apprendimento.
La sperimentazione e la verifica sul campo, hanno consolidato il progressivo sviluppo di orientamenti scientifici e fornito solide fondamenta alle esperienze realizzate per soddisfare processi apprenditivi, ricevuto riconoscimenti esaltanti dagli insegnanti e dall’opinione pubblica. Una necessaria risposta al bisogno della società moderna di modificare nella sostanza ogni processo cristallizzato in un clima di anomia e di disuguaglianza, con una politica della solidarietà senza ingannevoli fascini, sostenuta da operazioni di soggettivazione idonee a soddisfare nell’allievo la stima di sé e dei propri bisogni sociali. Prove tangibili quelle che ci giungono da molte scuole che hanno aperto ai pedagogisti clinici dell’ANPEC -Associazione Nazionale Pedagogisti Clinici la formazione e l’aggiornamento i cui insegnanti, aiutati a raggiungere un Sé efficace intorno al quale imperniare il proprio ruolo operativo, rintracciare, delineare e coordinare nuovi metodi e tecniche idonee a preparare diverse azioni, esempio dell’evoluzione e del cambiamento. Attori protagonisti nel prendere coscienza delle proprie risorse e nel dare risposte ai bisogni degli allievi, capaci di aprire un ponte tra le potenzialità dell’allievo e le sue mille risorse, le sue reali possibilità, le sue difficoltà e i suoi disagi, fino a sviluppare, migliorare e fare emergere le sue abilità, capacità e disponibilità, definire pedagogiche relazioni intra e interpersonali. Tante testimonianze che possono sfuggire solo a chi intende ignorarle, i cui effetti innovativi posti in evidenza con successo sono stati garantiti da insegnanti che hanno partecipato a dinamiche di gruppo e realizzata una partecipazione che investe il versante socio affettivo e non soltanto quello didattico informativo. Insegnanti che, oltre al saper fare hanno riconquistato la disponibilità al dare, a stare con il gruppo di allievi e far loro esprimere, agevolando il confronto, la comunicazione reciproca, la circolazione delle idee, lo scambio di maturità. Un saper stare in dinamica con una corretta gestione della propria emotività, preso coscienza dei propri vissuti, consapevolezza dei propri limiti fino a raggiungere diverse modalità allo scopo di permettere l’emulsionare di nuove conoscenze ed esperienze per sentirsi protagonisti. Una classe professionale quella degli insegnanti, con una padronanza e capacità a stare con gli allievi e con le componenti genitoriali, per le diverse abilità socio-relazionali e suggestopediche, altamente specializzata.
Aspetti innovativi e conseguenti effetti che danno una dimostrazione di come poter soddisfare le esigenze della nostra società in evoluzione, un insegnante con una pratica abilità pedagogica che evita l’isolamento, che torna ad essere riconosciuto dal sociale. Scoperte le personali ingenti risorse, ritrovata una personale consapevolezza che permette all’insegnante di muovere nel rispetto del soggetto in un clima simpatetico ed originali combinazioni di scambio, queste le nuove dinamiche tese a sviluppare e potenziare abilità e disponibilità, dimostrazioni di una apertura, una stima e una fiducia nuove che orientano ad un autentico cambiamento profondo della società.
Guido Pesci Marta Mani
Percorso clinico. Aiuto alla persona
Magi Edizioni. Prefazione
La storia di questo libro “Clinico-Aiuto alla persona” è lunga e ricca di soddisfazioni. Erano gli inizi degli anni Settanta quando il movimento degli ortopedagogisti, composto da persone laureate in lettere, filosofia, sociologia o pedagogia, che avevano maturato una certa professionalità, grazie alla ricerca e all’esperienza acquisita sul campo, nel fronteggiare i problemi di soggetti in difficoltà, si riunì a Firenze presso il Cenacolo Antiemarginazione, con il preciso scopo di mettere a punto un percorso formativo adatto a quanti, dopo la laurea, intendevano svolgere la professione di ortopedagogista.
Io ero alla guida di questo movimento e si decise di accogliere presso i nostri centri di recupero i laureati che avessero fatto richiesta di una personale formazione.
Le abilità professionali dell’ortopedagogista erano ampiamente riconosciute sia in Europa che in alcuni paesi extraeuropei dove i metodi e le tecniche per aiutare i soggetti in difficoltà erano però rivolti solo al bambino scolaro, mentre noi in Italia ci proponevamo di fronteggiare i disagi di persone di ogni età e, in ragione delle abilità professionali raggiunte, occupavamo posti dirigenziali sia come dipendenti che a convenzione di istituti pubblici e privati, oltre a godere di una certa fama nel lavoro autonomo.
Mentre ci impegnavamo nella formazione di altri laureati, provvedevamo altresì a specializzarci frequentando corsi specifici sia presso scuole francesi che italiane.
A tutto questo fermento culturale e formativo si aggiungeva la continua e costante ricerca che veniva realizzata nei nostri Centri di recupero, opportunità di conoscenze e di esperienze che ancora ci guidano e che negli anni Settanta offrirono l’occasione per importanti partecipazioni a convegni e congressi.
Il termine “ortopedagogista” oggi può essere visto come poco espressivo e di scarso interesse, mentre allora il prefisso “orto” era assai comune, basti pensare a voci quali “ortofonia”, “ortografia” e ancor più a “ortofrenia” e “ortofrenici”, da cui sono derivate le Scuole Magistrali Ortofreniche, dove noi ortopedagogisti insegnavamo, e avevamo il compito istituzionale di formare gli insegnanti ortofrenici, definiti in seguito a una nuova normativa “specializzati”.
L’appellativo di ortopedagogista nella metà degli anni Settanta, nonostante l’importanza che aveva assunto, cominciò a essere considerato anche da noi obsoleto così, in una riunione di magistero nel nostro Cenacolo, proposi di sostituirlo con quello di “Pedagogista Clinico®” e di chiamare “pedagogia clinica” la nuova scienza. Quest’ultimo termine ebbe un immediato successo tanto che divenne il titolo della rivista dell’Associazione Nazionale delle Scuole dei Corsi di Specializzazione (già Scuole Magistrali Ortofreniche), la quale, successivamente, con la chiusura di queste Scuole cessò le pubblicazioni. Essa, tuttavia, non si atteneva alla nostra accezione di “clinico”: aiuto alla persona di ogni età e al gruppo, ma contribuì ugualmente, grazie al suo nome, a suscitare interesse sulla nuova disciplina.
Negli incontri presso il Cenacolo Antiemarginazione, tenutisi nei mesi di maggio e giugno 1976, ci proponemmo con sempre maggior accanimento di ampliare le conoscenze e le abilità della nuova figura professionale del Pedagogista Clinico®. Una genesi del sapere e del saper fare che richiedeva di non adagiarsi nella pigrizia mentale, ma di prendere su di sé la fatica di formulare concetti nuovi o innovativi e di renderli comprensibili, di verificare la validità di nuovi metodi e nuove tecniche, guardando al di là della superficie, dell’esperienza empirica, per cogliere gli aspetti nascosti che spesso contraddicono l’ovvia e usuale apparenza. La grande novità non fu rappresentata dunque solo dalla diversa terminologia adottata per la nuova scienza, ma dall’esemplare concretezza.
A mano a mano che il lavoro di ricerca con gran fermento procedeva, scoprivamo di essere perfettamente in grado di raccogliere, capire e valutare ogni tipo di informazione e di saperla convenientemente orientare verso questa nuova disciplina e questa nuova categoria professionale.
Il tutto non senza trascurare di dare fondamenti epistemologici alla pedagogia clinica, rintracciando in radici lontane (2000 a.C.-1800 d.C.), i criteri di validità di questa scienza e dell’impegno operativo, grazie all’approfondimento dello studio dei suoi padri, che avevano operato all’estero e in Italia. Sul contributo di questi antesignani, tra cui in particolare Antonio Gonnelli-Cioni, sono stati scritti articoli e saggi e organizzati convegni e congressi.
In quello stesso periodo sono stato impegnato anche nella traduzione di lavori sulla difettologia, una disciplina orientata al recupero dei soggetti con particolari difficoltà, assai ben avviata nei paesi dell’Est. Scrissi la Prefazione e curai l’edizione italiana del libro di L. S. Vygotskij, Fondamenti di difettologia (Roma, Bulzoni, 1986) e iniziai a collaborare con l’Università di Lubiana, insieme ad altri colleghi, per conoscere ancora meglio i metodi e le tecniche della difettologia. Intanto in Europa aveva trovato vasta eco la psicomotricità, una disciplina che ritenemmo interessante per le nostre ricerche e le nostre esperienze, perciò organizzai incontri, convegni e seminari con i più grandi maestri di questa scienza: Lapierre, Acouturier, Vayer e Le Boulch, il quale mi è rimasto accanto fino al termine dei suoi giorni.
Nel frattempo, l’interesse per una formazione rivolta a favorire abilità professionali capaci di rispondere al vasto panorama dei bisogni educativi della persona d’ogni età, di difendere ogni singolo uomo e di far progredire la collettività, aumentava ed entusiasmava un numero crescente di laureati che continuavamo ad accogliere presso i nostri Centri mettendo a loro disposizione le nostre conoscenze.
I successi della ricerca ci confortavano costantemente e ci offrivano l’energia per impegnarci sempre di più, trasmettendo ad altri i metodi e le tecniche che a mano a mano trovavano sempre maggiori conferme nei risultati positivi degli interventi d’aiuto. Eravamo alla fine degli anni Ottanta e i Centri denominati CESAPP (Centri Studi di Applicazioni Pedagogiche e Psicologiche), presieduti da pedagogisti clinici, erano in grande aumento. In questi posti costoro produssero e pubblicarono un ricco materiale esplicativo sulla Pedagogia Clinica e sugli interventi che realizzavano in ossequio alle basi scientifiche e tecnico-metodologiche che avevano acquisite. Del resto i metodi e le tecniche sperimentate erano così numerose da permettere di intervenire ecletticamente a favore della persona e perciò liberarla dalle difficoltà e dai disagi per guidarla verso l’equilibrio e l’armonia.
L’eco dei successi dei nostri CESAPP spingeva sempre più persone a specializzarsi in Pedagogia Clinica. Le richieste erano talmente tante che cominciarono a divenire eccessive per i nostri Centri e ciò impose, successivamente, di intraprendere la formazione per gruppi.
Ci entusiasmava constatare il successo della nostra categoria, legato certo a una formazione che si basava su metodi e tecniche esclusive del Pedagogista Clinico®, che veniva accolta da laureati motivati e con chiari obiettivi, che volevano – e vogliono ancora oggi – andare oltre gli studi facili e inutili, i percorsi brevi e facilitati o addirittura per corrispondenza.
Alcuni attuali docenti dell’ISFAR® Post-Università delle Professioni ®, sono quelli stessi che negli anni Settanta, da ortopedagogisti, hanno contribuito a creare questa nuova categoria professionale, altri sono divenuti didatti formatori dopo aver acquisito le abilità professionali richieste e svolto per lungo tempo un lavoro autonomo in un proprio Centro.
Adesso gli insegnanti coinvolti in Italia nella formazione della professione di Pedagogista Clinico® sono 41 e l’ANPEC (Associazione Nazionale Pedagogisti Clinici), accoglie nel proprio Albo professionale circa 1600 iscritti con una specializzazione triennale di 1500 ore. 1)
L’associazionismo sta dando alla categoria nuovo vigore e ci stimola a perseverare nel lavoro comune; la ricerca costante ci permette altresì di giungere a nuove e diverse conoscenze che, di volta in volta, vengono pubblicate nella Collana di Pedagogia Clinica, delle edizioni Ma.Gi., appaiono sulla rivista “Pedagogia Clinica-Pedagogisti Clinici”, oppure sono divulgate da libri editi da altre case editrici e da testate giornalistiche italiane e straniere. È all’estero, infatti, in paesi di lingua spagnola e in Belgio che, in questi ultimi anni, il Pedagogista Clinico® ha trovato ampie conferme quale figura di elevata specializzazione.
Il nostro lavoro ci ha consentito di valutare quanto sia possibile realizzare a favore della persona. La nostra forma di educazione ha avuto un effetto equilibratore su tanti soggetti, e ciò ci ha permesso di prendere coscienza del nostro potere in quanto forza politica e sociale in grado di operare dei cambiamenti.
Il Pedagogista Clinico® con la sua professionalità ampiamente consolidata, lotta costantemente contro le carenze educative, l’ignoranza, l’insicurezza, capaci di alienare e di impedire di raggiungere una personale completezza.
Dalle pagine di questo libro si evince chiaramente che, per capire le grandi novità storiche della nostra epoca, c’è bisogno di strumenti concettuali altrettanto nuovi, e la dinamica interna del nostro Cenacolo ci ha stimolato a rintracciarli.
Mi sono dedicato alla stesura di questo testo con l’intenzione di voler realizzare qualcosa di utile e di pratico, che possa servire da incitamento e introduzione a chi voglia conoscere i principi su cui si basa la formazione del Pedagogista Clinico® e addentrarsi nelle abilità professionali che questi deve saper testimoniare, affrontando con modalità educative adeguate i tanti problemi che possono condurre una persona ad avere necessità di richiedere aiuto.
Nell’esporre questo orientamento disciplinare, mi sono impegnato a far risaltare ogni aspetto della nostra storia di pedagogisti clinici, a definirne e fissarne la validità, la struttura della profonda esperienza e dell’identità e altresì a far comprendere ciò che significa per il sociale il dispiegare le capacità professionali, le energie e i talenti.
Guido Pesci
Autonomia e coscienza di sé
Magi Edizioni. Prefazione
Nel 1890 Antonio Gonnelli-Cioni diceva “Non c’è più persona, mediocremente colta e sincera, la quale non riconosce l’importanza dell’educazione non solo in rapporto all’individuo di ogni età ma alla società intera”. Da allora, dopo un lungo periodo durante il quale la pedagogia era un corredo della medicina, tanto che ne era derivata una materia confusa con la malattia, capace di vedere risolti gli impegni educativi per mezzo dell’ <ortopedia psichica> e della <cultura sensoriale>, si è realizzata un’ampia mutazione, che ben si coglie nella Pedagogia Clinica.
A quei pedagogisti che avevano perso di vista il confine fra l’ammaestramento e la vera educazione, tra l’educazione e l’approccio zoologico, la Pedagogia Clinica ha cercato di rispondere con un’azione umana di aiuto alla persona, capace di agire e di incidere specie sulle zone depresse dell’umanità, in una vastità di aree da soddisfare, con un insieme di interventi di educazione e prevenzione, sia a livello individuale che di gruppo.
Un orientamento nuovo, che obbliga alla ricerca di nuove soluzioni al cui confronto si pone il valore della lotta politica e sociale che si misura dalla profonda incisività contro ogni conformismo.
l ritardo dei partiti politici nel recepire le istanze della pedagogia non si spiega con la sola perenne e penosa lentezza con cui le istituzioni purtroppo si muovono. Ciò che si chiama ritardo, con un termine ferroviario per giustificare l’inefficienza politica, in realtà è la necessaria sottovalutazione della pedagogia per un consolidamento di quei rapporti di potere nella società che hanno visto affermarsi l’unicità politica della <sanitarizzazione>.
La democrazia è negazione specifica d’ogni pigrizia, è attività cosciente, volontà di rinnovamento, coraggio nell’affrontare con serietà i problemi della vita: per questo gli organismi politici e amministrativi preposti dovranno dare inizio, con serietà e coraggio, ad una collaborazione intelligente e concorde e muoversi verso una riforma che consenta, per queste vie, un rinnovamento della società.
L’idea-chiave per una nuova politica è la prevenzione realizzata tramite una Pedagogia Clinica sostenuta da nuove tecnologie, basata sulla partecipazione, indirizzata verso le cause, collegata ad un progetto razionale di trasformazione della società e di valorizzazione del singolo uomo, tendente perciò a ridurre i bisogni sanitari per agevolare prevenzioni, recuperi di energia e capacità vitali.
Inseguendo questo indirizzo si comprende quanto sia necessario continuare a lottare per ridurre gli orientamenti cristallizzati verso gli interventi sanitari e per riassorbire tutte quelle necessità che generano dépistage dai canali naturali nei quali molti soggetti possono invece trovare soluzioni ai loro problemi.
L’intervento politico-amministrativo deve sostenere sempre più la prevenzione, spaziare verso ogni età ed ogni bisogno, creare situazioni esemplari, sollecitare un rinnovamento complessivo, necessario all’autorealizzazione dell’uomo.
In questi anni si va sempre più delineando una ricostruzione faticosa e difficile di tutto ciò che indissolubilmente lega l’educazione al progresso dell’uomo, mentre si forma e matura una consapevole coscienza pedagogico-clinica per nuove soluzioni educative, indispensabili al rafforzamento delle capacità individuali e al progresso culturale e sociale.
Dalle componenti attive e progressive del nostro Paese, a seguito di un paziente e coraggioso lavoro che ne ha sviluppato la sensibilità, viene delineato un riconoscimento sempre più ampio al compito dell’educazione. Si tratta di una concezione che non si propone un ideale astratto ma un compito concreto, una dialettica e costante verifica di contenuto e di metodo, una battaglia per affrontare con spirito nuovo i problemi nuovi. E’ l’inizio di un’esperienza viva per una nuova pedagogia umana e non formale, non irrigidita in forme fisse e immobili ma adeguata allo sviluppo e al progresso, protratta nel movimento in avanti verso un reale rinnovamento sociale.
La Pedagogia Clinica, ormai non più relegata alle manifestazioni morbose della malattia, all’area scolastica e dell’infanzia, ha il compito specifico di rispondere al vasto panorama dei bisogni educativi della persona di ogni età, non più interessata, quindi, ad un settore della vita, ma a tutta la vita. Si tratta di una pedagogia che si propone la comprensione dei processi individuali nella loro globalità specifica e delle possibilità di aiuto educativo. Educare, per la Pedagogia Clinica, significa rendere operativi i suoi corollari scientifici, ossia favorire la crescita di ogni persona e garantire ad essa l’integrazione in questa società complessa. Essa nasce per difendere ogni singolo uomo e per far progredire la collettività; ha il compito di promuovere una più incisiva lotta per ottenere riforme che prevedono il rispetto della persona umana, non più selezionata e raggruppata in categorie omogenee di <sventura>. L’accezione di clinico esteso alla pedagogia è il focus dell’elevazione professionale che assai bene può rispondere alle esigenze di alternativi criteri umanitari. L’azione umana di aiuto alla persona ed al gruppo ha come significato, per il Pedagogista Clinico®, il rapporto diretto e di interessamento con finalità educative.
Nonostante il perdurare dell’inerzia politica i pedagogisti clinici hanno assunto coraggiosamente l’impegno per un grande cambiamento e per far sì che la <sordità> intellettuale e politica si adatti all’uso di una <protesi> per uscire dal letargico silenzio.
Le vive esperienze pedagogiche di questi ultimi anni, condotte nel campo della ricerca scientifica e nell’impegno operativo, hanno permesso di perfezionare sempre più le strategie per il rafforzamento delle capacità individuali. Si tratta di nuove soluzioni per nuove e diverse situazioni in cui l’uomo possa realizzare se stesso e trovare negli altri un plasmon alimentare in risposta alle sue esigenze.
Per amplificare gli effetti di questa nuova impostazione di vita occorre recuperare la società del benessere, che certo non è quella fondata sul consumo e sul possesso, tesa ad esasperare l’individualismo o a limitare le possibilità di un’autentica vita comunitaria, né quella in cui gli individui vivono la soggezione e la suggestione della medicalizzazione e della psicoseduzione. La società del benessere deriva da un processo di attiva, continua collaborazione, di dignità e di coerenza che sole possono influire positivamente sulla formazione dell’uomo.
L’educazione deve offrire all’uomo l’abilità di governare i propri sentimenti, di dare seguito ai suoi propositi, di utilizzare la volontà fino a volere davvero e passare così, liberamente e facilmente, all’esecuzione.
La Pedagogia Clinica si propone di mantenere viva nell’individuo la facoltà recettiva di sensazioni e la capacità di diffondere piacere, di stimolare immagini, idee e ragionamenti, che possono permettergli di contemplare il mondo che lo circonda e di realizzare l’<age quod agis>, quel prestare attenzione a ciò che sta facendo per conseguire il dominio dei pensieri, rischiarare l’intelligenza, irrobustire la volontà, mantenersi padrone di se stesso e superare tutto ciò che lo molesta o lo pregiudica.
Il dovere della Pedagogia Clinica è quello di liberare gli uomini dagli ostacoli, aiutarli a ritrovare il loro equilibrio, riportare l’espansione del disordine verso l’ordine, realizzare esperienze conoscitive coordinate in un insieme coerente e consapevole di sé. Questi sono degli obiettivi che reclamano di uscire dalla repressione del codice binario, affidato al pensiero convergente, al dire o al fare, che considera l’educazione come una limitata trasmissione di conoscenze, per trovare sostegno sui due emisferi che sono assai più che la somma delle due parti.
Un’educazione che sia capace di agevolare la formazione di una personalità forte, di un carattere adatto per affrontare la vita e superare le difficoltà, che prenda il posto delle impressioni sconnesse, delle preoccupazioni e delle melanconie. Viene così soddisfatta l’esigenza di una pedagogia nuova con radici nell’esempio, nella ricerca e nell’azione comune e con postulati rivolti alla risoluzione dei problemi della prevenzione, del recupero di energie e capacità vitali.
L’innovazione dei servizi alla persona è legata anche, ed in particolare, alla rilevazione delle potenzialità, abilità e disponibilità del soggetto, attraverso procedimenti capaci di previsione e di verifica o di comprensione dei problemi e dei fatti. Si tratta di un percorso conoscitivo realizzato con modalità diagnostiche, selezionate ed elaborate in base a studi orientati al controllo delle inferenze e dei significati soggettivi e che rispondono a criteri di rigore, obiettività e coerenza.
La Pedagogia Clinica che si muove sul pensiero <unitivo>, dinamico e dialettico, impone di acquisire, dalla constatazione della interconnessione di aspetti diversi della personalità e del comportamento, una completa informazione sulla persona. Non possiamo più esaminare gli aspetti qualitativi di un soggetto con regole e strumenti quantitativi, la realtà umana è complessa e ogni feticizzazione può portare al rischio di definire la sola logica formale. La conoscenza del soggetto deve eludere ogni astrazione con la pretesa di obiettività, ogni imitazione <psittacistica> di una rigida valutazione, per una traduzione semantica dei rapporti referenziali, dei sentimenti e delle emozioni connessi ai segni verbali, ai suoni, alle posture, alle distanze, per raggiungere la totalità della comunicazione.
Il soggetto è conosciuto solo se di lui si registra ogni percezione degli eventi ,sia esterni che interni, se si analizza ogni manifestazione soggiacente e sotterranea, se si registrano i sentimenti che lo orientano all’automatismo comportamentale, fondanti quel complesso di conoscenza in cui ogni individuo ripone la propria identità.
La continuità dinamica delle forme di conoscenza offre l’opportunità alla Pedagogia Clinica di utilizzare prassi metodologiche e tecniche sempre più fertili, cariche di interesse e di pathos ,capaci di produrre ,in un’atmosfera di incoraggiamento, di sollecitazioni e di interazioni, ampie sinergie e <risvegli> orientati al soggetto nella sua globalità.
Si tratta di favorire scambi comunicazionali che avviino ad accessi polieducativi ed introducano nell’universo dell’intuizione, dell’immaginazione e della creatività. Un’educazione che consiste nell’espandere, sviluppare, affinare ed elaborare tutte le abilità della persona perchè possa imparare, risolvere, decidere e creare, fino a raggiungere un rapporto significativo con se stesso e con gli altri. Un obiettivo che può essere inseguito con successo se la definizione delle strategie restituirà al soggetto la possibilità di prendere coscienza del proprio corpo, delle proprie emozioni e sensazioni e del proprio autentico linguaggio espressivo.
In questo volume sull’ Autonomia e coscienza di sè molti degli aspetti dell’individuo vengono osservati e tratti dai significati delle azioni, dall’analisi dello stato di ordine e di disordine, dalla stabilità e dall’equilibrio, dalla dipendenza/indipendenza. Tante notizie, primi dati guida indispensabili per la formulazione di ipotesi di intervento.
Guido Pesci
L’anamnesi. Un colloquio per conoscere significati complessi
Magi Edizioni. Prefazione
Le idee implicitamente, tanto filosofiche quanto tecniche e scientifiche, possono mettere a contatto con un nuovo insieme di concetti e avviare la trasformazione di alcuni campi di ricerca tradizionali. Sono queste le idee innovative che hanno spinto i pedagogisti clinici ad acquisire un genere di conoscenze necessarie per dare un nuovo contenuto all’educazione e soddisfare le esigenze di un sociale che scopre sempre più l’utilità di un aiuto per mezzo di esperienze educative.
Non più limitati a una storia delle idee i contenuti umanistici e scientifici in Pedagogia Clinica si trovano coesi per garantire una educazione della persona, orientati da uno studio fenomenologico e scientifico che pone l’accento sugli aspetti differenziali e socialmente connotati. L’indagine sui problemi e sugli elementi di crisi e l’elaborazione delle innovazioni necessarie alla vitalità culturale e al progresso, sono occasioni di discussione e di confronto fra gli studiosi di questa disciplina. Nuovi concetti sono stati elaborati dai pedagogisti clinici per sfidare i vecchi e muovere verso cambiamenti esponenziali nei sistemi interattivi, determinati da uno sforzo di conoscenza e comprensione.
Un fervore ha sospinto i ricercatori a perseverare nella ricerca scientifica con meticolosità e coscienziosità, decisi a penetrare risolutamente nelle più sottili analisi dei fatti educativi, consapevoli dell’intimità dei processi umani, per dare vita a un indirizzo autonomo originale quale i nuovi tempi reclamano.
La profusione di studi e ricerche ha assicurato in questi ultimi anni lo sviluppo di principi pedagogici e idee scientifiche della Pedagogia Clinica sempre più nuove, avallate dall’opinione pubblica, fondamentali per il progresso sociale, per un futuro di speranza. Ogni idea nuova, ogni formulazione concettuale e nuove tecnologie proprie della Pedagogia Clinica e dello stile eclettico con cui si distingue, hanno contribuito e contribuiscono a liberare l’uomo dagli errori fino a spingerlo alla ricerca di un equilibrio e di una armonia.
La condizione essenziale per ogni esperienza educativa pedagogico clinica è conoscere la persona a cui l’aiuto è rivolto e l’anamnesi che viene accolta in questo volume si propone come un’eccellente occasione di esplorazione dell’individuo, per prevedere e provvedere alle sue richieste d’aiuto. Una grande opportunità per individuare le diverse tonalità affettive, lo stile di vita, i modelli di partecipazione sociale, gli effetti delle influenze amicali, i sentimenti, gli umori e i desideri afferenti l’amore, le tensioni, le passioni nei costrutti coniugali, le decisioni, le risoluzioni, le azioni della vita professionale e politica; il modo in cui il soggetto si è adattato alle situazioni di ambiente e come le esperienze possono averne modellato la personalità attuale.
Per conoscere i significati complessi della storia di un soggetto il Pedagogista Clinico® si serve dell’anamnesi, considerata come una opportunità di incontro che consente di conoscere l’altro, senza costrizioni e forzature, in antitesi ai metodi autoritari, o ai criteri dell’inchiesta o, ancor più, agli ottusi sondaggi. Una anamnesi realizzata con metodo non direttivo, in cui l’uomo è il centro del problema pedagogico e con il quale il Pedagogista Clinico® deve raggiungere una entropatia e costruire una autentica comunicazione al di fuori di ogni atteggiamento giudicante.
Guido Pesci
Difficoltà di linguaggio e integrazione scolastica.
Bulzoni Editore. Prefazione
«L’insegnante costringendo il bambino ad imparare un suono difficile, a volte lo colpiva fino a rompergli i denti e, dopo essersi ripulito la mano del sangue, passava ad un altro allievo o ad un altro suono». È una descrizione di una realtà del secolo presente, costipata da maltrattamenti all’infanzia, raggiunti per mezzo di brutalità fisiche e psichiche in conseguenza ai metodi educativi indirizzati al separatismo, all’intervento zoofiliaco dell’ammaestramento. Una educazione basata su un lavoro forzato, insensato, penoso, artificiosamente curativo, sterile, che vuole l’allievo segregato e chiuso nel suo microcosmo, reso parassita ai margini della vita. Un intervento pedagogico emendativo, conformato e adattato al deficit, concentrato sull’insufficienza organica, orientato sulla malattia e capace solo di impedire le esperienze socializzanti, sviluppare nel soggetto un maggiore isolamento.
Questo è il risultato di quanti hanno considerato il deficit un problema rozzamente organico, posto nei limiti angusti di un determinato organismo, studiato e compensato come se gli organi fossero soltanto organi di senso anatomico e non anche organi sociali. Di tale concezione emendativa si è nutrita e si nutre la pedagogia terapeutica, improntata ad uno spirito ospedaliero, ad una attenzione scrupolosa della malattia, alla ingenua certezza che la psiche può essere sviluppata, curata, armonizzata, con misure terapeutiche al di fuori dello sviluppo generale delle esperienze di comportamento sociale. Una pedagogia terapeutica che vuole risolvere i problemi nell’ambito della educazione individuale, organizzata nel duetto operatore/allievo, in quell’angusto ambiente artificiale, dove tutto si adatta al deficit e si muove all’insegna della rigidità e della costrizione, all’insegnamento meccanico dell’articolazione.
All’ortopedia psichica, ancorata all’aspetto patologico, alla volontà di soporiferare gli istinti e le tendenze della persona, alla metodologia del-l’articolazione, al principio dell’invalidità, riconosciuta l’esistenza in tutti i soggetti di una riserva di salute, si è fatta spazio, a fatica, con gradualità, l’affermazione che il disabile è in primo luogo una persona e che compito dell’educazione è quello di aiutarlo a superare le onseguenze sociali originate dal deficit e inserirlo nella vita di relazione. Ciò significa che per ridurre le difficoltà di linguaggio, assai meglio si adattano esperienze a più voci, esperienze di comportamento sociale, che la scuola e il gruppo classe assicurano o possono e devono assicurare.
Questa affermazione ha origine da esperienze in atto assai confortanti e consente di respingere le nozioni speciali e i metodi speciali attuati contro il soggetto, proposti nell’ambito ristretto della pedagogia speciale.
L’impegno di rispondere alle necessità del soggetto attraverso la scuola, in alternativa alla pedagogia terapeutica, ha generato non poche prese di posizione, fino a dichiarare da parte di alcuni insegnanti che «un deficitario in una classe di normali è un focolaio di contagio psicologico nella scuola».
Al di là di queste espressioni fumettistiche, era indispensabile che l’istruzione speciale dovesse perdere il suo carattere e diventare parte del lavoro educativo comune, fondere l’ortopedia psichica e la cultura sensoriale nel gioco, nei compiti e nel lavoro comune.
L’obiettivo, diceva il Vigotskij, «consiste nel collegare .1a pedagogia che cura i bambini deficitari ai principi e ai metodi comuni dell’educa-zione sociale, nel trovare un sistema nel quale sia possibile collegare organicamente la pedagogia speciale con la pedagogia che si occupa dei bambini normali» (L.S. Vigotskij, Principi di difettologia, Bulzoni, Roma 1986, p. 85).
Per raggiungere realmente questo scopo, era inevitabile un lavoro creativo di ristrutturazione della nostra scuola su nuovi principi che po-tessero scardinare le conseguenze sociali del deficit. Un punto di vista che imponeva di considerare, oltre alle caratteristiche e ai valori negativi del bambino, anche l’aspetto positivo della sua personalità e i complessi percorsi indiretti del suo sviluppo.
I principi e l’operatività contemporanea, tesi a voler raggiungere l’inserimento e successivamente l’integrazione, pur muovendosi con interessanti intenti e con l’applicazione pratica e sistematica di diverse strategie, non hanno permesso, ancora oggi, purtroppo, di rendere possibile quel collegamento organico fra la pedagogia speciale e la pedagogia che si occupa di soggetti in assenza di deficit del linguaggio. I contenuti della teoria e la realizzazione di una scuola interessata al recupero del soggetto don difficoltà di linguaggio, orientata sull’aspetto patologico come sulla salute, sull’insufficienza come sulle risorse che il soggetto possiede, esigono ormai l’oblio delle lezioni a comando, il disinnesto dal carattere di lavoro forzato, ripetuto ed invilente, per lasciare spazio al gioco, alle esperienze suscitate da necessità, pregne di significato.
Per dare concretezza a queste aspirazioni, i metodi e le diverse strategie, devono muoversi su appositi percorsi e dare equilibrio ad un sistema ancora turbato. «Non accontentiamoci degli obiettivi raggiunti dalla attuale integrazione dei soggetti con handicap» — così ha inizio il richiamo alla riflessione sottoscritto da Andrea Canevaro, Guido Pesci e Pino Varisco-forse, -prosegue il messaggio-, perché distratti, abbiamo trascurato quell’aspetto nutrizionale del rapporto che è il dare. Dire e fare con l’altro, sono sicuramente i soli ad essere privilegiati. Ora a questa aridità occorre trovare opportunità di conversione con una psicopedagogia centrata sul dare. Le tecniche e le metodologie, le strategie non possono più nekligere il dare e questo non può più essere appreso leggendo e ascoltando. E nel dare che sr apprende a dare, perciò il dare è l’originale integratore. Il dare è una disponibilità allo scambio comunicativo, derivata da e suggerita a, capace di organizzare una sequenza di azioni in ogni situazione partecipata e di sviluppare i significati soggettivi in significati condivisi. Una formazione alla scuola del dare può consolidare l’essere e il rendere gli altri capaci di dare; un distintivo vantaggio per il soggetto con handicap che ognuno di noi non dovrebbe più trascurare. Fautori della psicopedagogia centrata sul dare vogliamo che altri ci affianchino nella riflessione e nella costruzione di una sempre più solida barriera all’handicap». Anche per soddisfare questo impegno ho individuata la necessità di scrivere il presente volume.
Guido Pesci
La fiaba come risveglio dell’intuizione.
Magi Editore. Prefazione.
L’immagine precede l’idea e arriva a un livello geneticamente anteriore fino a raggiungere gli stadi più arcaici, fino a entrare in con tatto con il mondo archetipico interno. È un prezioso strumento che ci permette di ricomporre le par ti frammentate dell’Io, di mettere in ordine i contenuti universali .svelati e di adeguarli ai nostri bisogni.
Esiste uno stretto, inscindibile rapporto fra immaginazione e azione: immaginare qualcosa è prepararsi ad essa, un preparativo che tende poi a realizzarsi nell’azione. L’immagine si propone perciò come uno stimolatore indispensabile per scoprire ed elaborare forme di pensiero profonde e complesse, per favorire l’attivazione dell’energia archetipica e porla al servizio dell’evoluzione e della trasformazione, portando in superficie modelli adeguati alle capacità potenziali della persona. Ne deriva che favorire la fantasia immaginativa significa offrire all’individuo l’opportunità di affrontare la sua realtà interiore, di muovere verso il superamento dei suoi disagi e di facilitare l’affermazione progressiva della sua personalità.
La fiaba, genitrice di ampie sollecitazioni, si propone dunque come uno degli oggetti intermediari che più di ogni altro può aiutare la persona. Noi agiamo in base all’immagine profonda che abbiamo di noi stessi, perciò il suffragio della fiaba è di fondamentale importanza nella determinazione dei comportamenti e dei modi di essere e ciò interessa soprattutto per le implicazioni perfezionanti e maturanti che essa ha nei confronti della sfera affetti vo-volitiva.
La fiaba, servendosi della fantasia immaginativa presente nell’individuo e sollecitandone ulteriori espansioni, può garantire alla persona una presa di coscienza del proprio potere di dominare e di concludere felicemente ciò che sente dentro, fino a farle ritrovare la realtà quotidiana e una rassicurazione rivolta al futuro.
La fiaba è un mezzo che suggerisce come sia possibile affacciarsi al mondo senza sperimentare la paura di perdersi, come affrontare la realtà di ogni giorno contando sulle proprie forze per cavarsela nel migliore dei modi, dando prova di coraggio e di iniziativa, come il protagonista di ogni fiaba, che alla fine trionfa. Attraverso lo svolgersi lento della trama, partendo dalla realtà interiore, le fiabe, con le loro immagini cariche cli elementi emotivi che rappresentano la linea di unione tra il pensiero e il sentimento, con il loro impulso motore, spingono il soggetto verso una maturazione superiore.
La fiaba dunque, come metafora, come allegoria della vita interiore”, come un indispensabile oggetto intermediario che ci introduce nel mondo simbolico e ci fa percorrere i paesaggi interiori, è uno degli strumenti indispensabili alla Pedagogia Clinica per sti molare la persona e spingerla al superamento del proprio disagio personale e sociale. Con i suggerimenti che ci pervengono dalla pregevole opera di Dal Porto e Bermolen, la fiaba ben si integra in modo fluido alle strategie di aiuto del Pedagogista Clinico®.
Guido Pesci
Antonio Gonnelli-Cioni. Antesignano della pedagogia speciale in Italia.
Magi Edizioni. Prefazione.
Chi è Antonio Gonnelli-Cioni? Questa probabilmente sarà la prima domanda che il lettore si sarà fatto nonostante sia laureato in Pedagogia o in Scienze dell’Educazione o in altre discipline umanistiche o sia insegnante specializzato per soggetti portatori di handicap. Porsi un simile interrogativo non fa scandalo; esso è legittimato dal fatto che coloro i quali dovrebbero far conoscere la scienza pedagogica non si sono sufficientemente documentati. Del resto non è solo il pedagogista Antonio Gonnelli-Cioni a essere sconosciuto o non sufficientemente valutato, apprezzato o studiato da quanti insegnano pedagogia. Lontani da: ogni idealismo secondo cui la pedagogia è vocazione, nel prendere coscienza di questa insipienza del sapere, si fa pressante un lavoro di recupero per individuare le profonde radici su cui trova sostegno la scienza pedagogico-clinica.
Lo studio epistemologico della pedagogia in aiuto alla persona (clinica). chiede di rintracciare i tanti sforzi condotti dai pedagogisti clinici, consapevoli che in nessuna epoca storica è mancata la sensibilità per il fatto educativo. Qui non ci introdurremo a studiare i presupposti educativi delle posizioni rituali richieste dai sacerdoti taoisti nel 2700 a.c., ma ci limiteremo a riflettere su quei tanti pedagogisti che dalla metà dell’Ottocento ai primi del Novecento sono rimasti ingiustamente sconosciuti, cosicché alla scienza sono venuti a mancare i loro competenti- contributi. Amnesie e oblii hanno fatto sì che venissero trascurati degli sperimentalisti come Christman e Wilker, dei ricercatori impegnati nella puntualizzazione di metodi e tecniche come il Biervelet, Brahn, Goblot e Handrick il quale ha scritto un libro che oggi suona come un lamento, Geringeschaetzung der experimentellen Paedagogilk (Il disprezzo della pedagogia sperimentale). La lista è lunga e include Kosog che ben ha definito il ruolo della psicologia in aiuto alla pedagogia, il Meumann ·e le sue tante ricerche, comprese quelle riportate nel libro Introduzione alla pedagogia sperimentale, il Sandiford con il suo prezioso volume Misurazioni pedagogiche e lo Smith-Bompas con n ruolo della sperimentazione nella scienza pedagogica. Non basta, a questi si devono aggiungere ben altri pedagogisti ignorati, fra cui quelli che si sono rivolti all’interessante filone della pedagogia della personalità, quali Hohmann, Goergeen, così come è stata trascurata quella pedagogia definita «scientifica» e con essa tanti ricercatori, fra cui il Rein e lo Zimmermann. Tutti perduti, passati come meteore, taciuti come se non fossero esistiti! A questi noi ci rivolgiamo, non alla pedagogia teorica, non alla filosofia ispiratrice delle teorie pedagogiche, tutte ampiamente conosciute, ma a coloro che hanno optato per un impegno attivo nella ricerca e nell’azione educativa. E tra questi obliati abbiamo incontrato Antonio Gonnelli-Cioni, un Pedagogista Clinico®, fondatore e direttore, in Italia, del Primo Istituto per Fre nastenici, e tanti altri pedagogisti direttori di istituti per soggetti in difficoltà quali, ad esempio, il Sagert di Berlino, lo Zuringer di Graz, l’Helfeich del Wurtemberg, il Platz di Riaga, il Bouchet di Ginevra, eccetera. E se possiamo, per il momento, sorvolare sulla trascuratezza con cui è stato trattato il lavoro di tanti pedagogisti che operava no all’estero, non ci è consentito invece continuare a vivere nel l’obnubilazione del contributo pedagogico del Gonneili-Cioni, colui che, dieci anni prima rispetto ad altri, ha aperto in Italia un istituto per frenastenici, il cui operato è stato acclamato da centi naia di articoli e che ha definito un Metodo per il recupero dei soggetti in difficoltà. Il Gonnelli-Cioni ha fondato la rivista «L’ortofrenia»; è stato il primo docente dei corsi ortofrenici, da cui sono derivate le Scuole Magistrali Ortofreniche. Egli ci ha lasciato una seria impronta anche su come coinvolgere la famiglia nell’aiutare il figlio in difficoltà. Dunque, la notorietà del Gonnelli-Cioni doveva essere abbastanza vasta da richiamare l’attenzione dei nostri insegnanti e ricercatori in pedagogia, invece non è stata sufficiente a farlo entrare nel loro sapere. Non sfugge invece la Montessori, la quale si presenta dopo dieci anni e quasi certamente, nell’attuazione del suo programma, si ispira al metodo del Gonnelli. Lui pedagogista non ebbe fama, lei, medico, trovò risonanza anche nei campus della pedagogia.
Tutto questo obbliga a tornare a scrivere e parlare di lui; il compito si impone come dovere morale, per distruggere quell’impalcatura di silenzio che è stata eretta attorno a questo pioniere della Pedagogia Clinica in Italia.
La sua fu un’autentica battaglia di civiltà contro i pregiudizi e l’emarginazione delle persone sfortunate, considerate indegne di vivere una vita associata. Egli comprese l’importanza dell’educa zione in aiuto alle persone in difficoltà, in un momento in cui la società tendeva a relegarle nei manicomi.
Egli promosse un cambiamento straordinario di mentalità e di cultura, improntato ad un profondo senso di solidarietà umana e di accettazione del diverso, una spinta innovativa e trasformatrice che la Pedagogia Clinica aveva il dovere di raccogliere. Un primo passo verso lo studio di quanti in passato hanno contribuito ad una pedagogia positivamente creativa, capace di educazione e di compensazione sociale, idonea a non scambiare l’integrazione con una concezione puramente aritmetica dell’insufficienza.
Guido Pesci