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GUIDO PESCI

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In questo articolo intendo soffermarmi sull’handicappato in età della scuola dell’obbligo per esaminare quali sono gli attuali presupposti della integrazione scolastica. Prima di procedere però si impone una domanda: fino ad oggi siamo stati capaci di inserire il ragazzo nella vita, di orientare il suo legame sociale con la vita, di incidere favorevolmente sul suo inserimento lavorativo e sulla sua partecipazione come uomo nella società? A questo interrogativo un NO non è certo pretestuoso, ne è rivolto ad avallare quanti si fanno di nuovo arditi nel dichiarare che “un deficitario in una classe di normali è un focolaio di contagio psicologico”. Il NO vuole essere di stimolo ad una analisi sugli errori commessi.

Primo errore fra tutti si trova nella costante che vuole vedere scambiata l’integrazione per una concezione puramente aritmetica dell’insufficienza, per l’uso del metodo della sottrazione che vuole ridotte, rallentate, le proposte di materiale didattico e richiesto semplicemente un prolungamento della sua elaborazione, insistendo su una considerazione puramente quantitativa dell’educazione, testimonianza di una anarchia pedagogica. Un modo questo non adatto ad incentivare il processo di integrazione bensì ad interromperlo, accontentandosi semplicemente di programmi in forma ridotta e di metodi semplificati, e quindi barando su un ordine numerale. È vero che è importante determinare con la massima precisione possibile anche le differenze quantitative del soggetto con handicap, ma il soffermarsi a questo problema di superficie è da condannare come mero disimpegno dell’educatore, capace solo di adattarsi al deficit anziché a sconfiggerlo, a della scuola che, in tal caso, si mostra adattata alle carenze del bambino anziché pronta e capace di battersi contro di esse per superarle e sconfiggerle.

Un altro aspetto, non meno deludente, per un reale processo di integrazione, è quello di conformarsi all’opinione comune che l’handicappato è un malato e ritenere perciò che la terapia debba avere nella scuola il diritto di cittadinanza ed essere impronta insostituibile al lavoro educativo. Un modo di vedere risolti attraverso la pedagogia patologico-terapeutica, in termini rozzamente organici, medici, i problemi pedagogici e psicologici.

Una pedagogia che legge e descrive gli organi solo in senso anatomico, incapace differenziarli ad un tempo come importanti organi sociali, che rischia di vedere nel bambino in difficoltà solo il deficit, solo l’aspetto patologico e non anche l’enorme riserva di salute. Una pedagogia terapeutica che ritiene di risolvere con la “ortopedia psichica” e con la “cultura sensoriale” ogni compito educativo, spinta spesso da un totale separatismo o comunque indirizzata su un particolare materiale didattico che vede il bambino manipolare nel silenzio grottesco cubi, modelli ad incastro, sfere per le collane e disegnare, disegnare ciò che altri vogliono e che lui non ha appreso e a volte neppure conosce. Questo significa avere perso di vista il confine tra l’ammaestramento e la vera educazione, tra l’educazione e lo “approccio zoologico del bambino” (Per un approfondimento cfr. L.S. Vygotskij-Difettologia, Bulzoni, Roma 1986).

Aspetti, quelli che ho segnalati, purtroppo assai presenti nella nostra scuola e comunque accomunati da un identico effetto: l’incapacità di sottrarre il bambino al suo mondo isolato e di aumentare il suo separatismo. È a queste, e non solo a queste, disattenzioni pedagogiche che si impongono programmi e prospettive in alternativa.

Un articolo è troppo breve per affrontare questo tema ma vale la pena di tentare di tracciare per lo meno un primo abbozzo. Per l’integrazione del bambino un primo atto richiesto è uno studio dinamico che permetta di constatare la gravita della disarmonia di sviluppo aggravato dal deficit e di comprendere ogni momento della sua vita trascorsa e le sue esigenze di essere sociale. Studiare il soggetto quindi non solo come fenomeno organogenetico ma come bambino socialmente deviato dalla norma, conoscere ogni suo aspetto socio-genetico e psicogenetico. In fin dei conti si tratta non di studiare il deficit ma il portatore di un certo deficit. Da una indagine sul deficit possiamo del resto venire a conoscenza di notevoli difficoltà, siano queste percettive, di lateralizzazione, di equilibrio, di rilassamento, di coordinazione, ecc, tante, ma tutte dalle caratteristiche negative, e da queste non possiamo risalire a quelle positive che, se vogliamo sinceramente aiutarlo, dobbiamo ugualmente conoscere.

In un mio lavoro (Esistenza n. I 1984), a questo proposito, ebbi a scrivere sull’utilità di “apprendere dall’handicappato”, dichiarando che era ora di dare inizio ad insegnare a lui solo dopo che noi abbiamo imparato la lezione. Se ci sapessimo porre con lui come attenti discenti e non come specialisti dall’occhio clinico, apprenderemmo infatti, certamente, che quel soggetto sa orientarci anche sulla sua normalità, sulla sua salute, sulle enormi risorse di salute mentale che sono presenti in lui: offrendoci così in lettura non solo il suo sviluppo aggravato da un deficit ma anche, ed in particolare, indirizzandoci sul ruolo che la sua carenza organica ha nella formazione della sua personalità. Vygotskij dice che il bambino il cui sviluppo è aggravato da un deficit non è semplicemente un bambino meno sviluppato dei suoi coetanei normali, ma è un bambino che si è sviluppato in modo diverso. E qui conviene scomodare anche Adier quando dice che le cause organiche agiscono non in se stesse non direttamente, ma indirettamente, attraverso la degradazione della posizione sociale del bambino provocate da esse fino a spingerlo a vivere un “senso di inferiorità”. La difficoltà in cui il soggetto si trova, le circostanze che determinano il luogo “geometrico” dell’uomo nell’ambiente, si strutturano secondo una nuova ottica, cambiano quindi il rapporto con la realtà e i rapporti personali e la difficoltà si traduce in una anormalità sociale del comportamento. Quindi non il deficit in se stesso decide le sorti della personalità, ma le sue conseguenze sociali, la sua realizzazione socio-psicologica.

Da queste osservazioni si impone perciò una revisione radicale della pedagogia, certo non è più accettabile la pedagogia del metodo della sottrazione come non lo è più la pedagogia patologico- terapeutica.

Si tratta di rompere con la statistica biologica e sviluppare una pedagogia positivamente creativa capace di organizzare una scuola di compensazione sociale e di educazione sociale, una ristrutturazione della scuola su nuovi presupposti. Bisogna escludere la pratica della pedagogia terapeutica, della artificiosità, dell’immiserimento, della compassione e della trasformazione dei soggetti in “personalità socialmente neutre” e innestare una educazione sociale che non risolva l’handicappato in un mero esecutore, ma lo includa nei vari momenti di ordine collettivo e organizzativo, indirizzati non alla soddisfazione di un rendimento ma alla maggiore intensità del suo sviluppo. Educare quindi il bambino, l’uomo e non l’insufficiente mentale, il cieco o il sordo.

Fin qui ho cercato di definire il passaggio da una concezione quantitativa a una concezione qualitativa dell’educazione e perciò al superamento dell’abuso della pedagogia terapeutica. Cercherò ora di definire nei fatti quel corollario di interessi su base prassico-metodologica.

Partendo dal presupposto che “la scuola deve porsi la realizzazione di forme di lavoro che corrispondano alle esigenze particolari dei suoi allievi”, si giunge a richiamare l’esigenza di un personale capace di realizzare un programma con metodi pedagogici adatti.

Sullo sfondo di un costante studio del bambino nel processo educativo, l’educazione speciale trova un’unica soluzione “sul terreno dell’educazione sociale”, capace quindi di orientarsi sulla normalità e sulla salute evitando ogni assistenza sociale e agendo come educazione sociale. Con ciò non intendo dire che per gli handicappati non esistono nozioni speciali, solo bisogna subordinare queste nozioni e questo insegnamento a una educazione e un insegnamento integrati in una attività generale del bambino. Non si discute se il bambino ha bisogno di esercizi “mirati” ma con quali mezzi realizzarli ed è certo che non potranno essere quelli della ortopedia psichica, del lavoro forzato, insensato, penoso, artificiosamente farmacologico, sterile, a garantire una adeguata reazione dell’organismo e della personalità del bambino al deficit.

Ciò che è indispensabile è che alla pedagogia terapeutica, dal suo spirito ospedaliere, dalla sua attenzione scrupolosa alle minuzie della malattia, sia abolita l’ingenua certezza che la psiche può essere sviluppata, curata, “armonizzata” con misure terapeutiche al di fuori dello sviluppo generale e delle esperienze di comportamento sociale.

Una reale educazione non può vedere garantito un primo posto all’ortopedia psichica e un posto secondario alle esperienze sociali e all’orientamento nell’ambiente, l’una e le altre, in una dinamica pedagogico-sociale, sono garanzia di nuovi elementi capaci di una reazione della personalità al deficit.

Il gioco, le attività socializzanti, la collaborazione in ruoli, in vissuti, possono non solo favorire la liberazione dal deficit, ma anche da ogni psicopatia immaginaria, impedire il senso di inferiorità, di autoinsufficienza, favorire la psicologia posizionale (rapporto o posizione sociale della personalità) e disposizionale (disposizione organica), formare un nuovo equilibrio operando in modo che assieme al deficit organico venga incrementata la ricchezza della riserva compensatoria, fornite le forze, le tendenze, le spinte al superamento della difficoltà.

È dalla grammatica dei messaggi del soggetto portatore di handicap, dal suo essere, dal suo esistere, dalle necessità espresse a mezzo di cinemi, di esibizioni fisiognomiche, di linguaggi testimoni, che ogni operatore può apprendere la via da seguire per creare quel processo creativo di strutturazione di tutte le funzioni di adattamento, sulla formazione di nuovi processi integrativi, sostitutivi e correttivi e sulla creazione di nuovi percorsi alternativi di sviluppo.

L’alchimia pedagogica cui assistiamo quotidianamente, deve lasciare il posto ad una pedagogia che non rinunzia all’uomo bensì consente di interessarsi a lui e perciò essere pedagogia sociale, nodo fondamentale dello sviluppo culturale del portatore di handicap.

In rivista Esistenza 1/1986

 

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