GUIDO PESCI
[/pt_text]L’educazione degli handicappati è un problema pressante che si colloca nel contesto del sempre più sentito bisogno della partecipazione sociale di ogni soggetto alla vita comunitaria a cui appartiene. Questa è una delle tante frasi che si pronunciano per manifestare l’impegno garantito a favorire l’inserimento dell’handicappato nel contesto educativo e sociale. Molti operatori, chiamati a riferire sulle esperienze di inserimento in congressi e convegni, portano quasi sempre risultati assai soddisfacenti; ma noi, o perché più realistici o perché più pessimisti, non siamo disposti a fare l’esaltazione di sporadiche esperienze positive, che tutti più o meno abbiamo fatto, e che del resto impallidiscono di fronte a quell’universo che vive nell’immobilismo. La poca sabbia resa fertile deve essere confrontata con il deserto e trovare coraggio di dire che le aspettative riposte nell’abbattimento delle strutture segreganti, cui gli handicappati partecipavano, sono state completamente frustrate. Polverizzando gli handicappati sul territorio abbiamo polverizzato il problema, ma certo l’handicappato non ne ha tratto i vantaggi sperati ed i suoi genitori spesso devono sopportare prolungate attese per una diagnosi da parte dell’equipe senza che sia peraltro garantito loro, al tempo stesso, un indirizzo o suggerimenti adeguati ad un intervento necessario; inoltre capita che questi genitori siano chiamati a rispondere con la loro presenza ad inconcludenti incontri con il personale della scuola, iniziare una incessante peregrinazione da un ufficio pubblico ad un altro per l’espletamento di pratiche, constatare l’inefficienza del servizio pubblico tanto che sovente sono costretti a sopportare anche un sacrificio economico e portare il proprio figlio presso specialisti privati.
Perché questo scollamento e tanta inefficienza? Una prima risposta viene garantita dalle nostre università, corsi di laurea ed indirizzo, dove si offre una preparazione su base psicoanalitica e non si preparano psicologi capaci di formulare diagnosi ed ipotesi di intervento rieducativo, riabilitativo e terapeutico a favore dei soggetti portatori di handicap psicofisici, sensoriali o affetti da turbe comportamentali; amara considerazione va fatta anche nei confronti dei medici, gli specialisti della rieducazione e riabilitazione, per i quali una formazione seria in tal senso è solo auspicabile. Fra questi ultimi, “terapisti” e “tecnici della rieducazione”, esiste inoltre sempre più forte la tensione, tanto che da più parti si assiste ad un vero e proprio scontro dovuto ai diversi centri di potere a cui appartengono, i primi voluti dalle Regioni e sostenuti dai medici, i secondi voluti dal Ministero della P.I. È necessaria e prioritaria quindi una scuola che riesca a garantire una adeguata formazione degli operatori di questo particolare settore, se vogliamo che la comunità possa godere realmente della loro presenza. Attualmente gli operatori sono tacciati di tecnicismo, e non a torto, se pensiamo che molti di loro, impegnati negli interventi a favore degli handicappati, non hanno fatto alcun training personale sulle varie tecniche da loro adottate nell’opera di recupero. Così ad esempio abbiamo degli “specialisti” che propongono il rilassamento senza mai avere vissuto quella particolare tecnica che vanno proponendo, oppure propongono esercizi di dialogo corporeo e non hanno avuto occasione di conoscere le risposte psico-tonico-affettive che questo può offrire. Ma, se vogliamo, il tecnicismo è il minore dei mali, specie se posto in relazione alla vera e propria improvvisazione.
Di fronte a queste annotazioni l’inserimento di cui si parla cosa si propone? L’inserimento non può rimanere l’eco di un movimento di opinione e per questo è necessario ordinare seriamente strumenti e processi educativi, rieducativi e terapeutici, garantire un personale operatore valido e richiedere strutture adeguate, solo così, senza falsi idealismi possiamo dichiarare di avere attuato una vera svolta a favore di quanti, fin troppo pazientemente, soffrono. La prassi riabilitativa e terapeutica non può non situarsi innescata nella ineludibile polidimensionalità ampia e profonda delle turbe, anche le più lievi, e alla convergenza e sintesi dei problemi fisici, psichici e relazionali. È proprio la complessità con cui spesso le disarmonie si manifestano, la loro reciproca interferenza e coesistenza, che impongono di affrontare il problema seguendo ampie analisi che permettono di individuare modalità di approccio e promuovere una valida azione di intervento o, termini di globalità, interessando perciò tutte le implicazioni cognitive, emozionali e relazionali, i presupposti del conoscersi per manifestarsi; si tratta di operare quindi su tutti gli effetti che possono ritrovarsi nello sviluppo personologico dell’adattamento e dell’apprendimento.
Richiedere che questo venga attuato significa, abbiamo detto, essere professionalmente preparati, avere spazi idonei, ecc., dunque, certo non può essere ne attuato ne favorito da quell’insegnante di “appoggio” che in classe insiste nel richiedere al soggetto un compito che i compagni hanno già terminato e che lui ha già più volte dimostrato di non riuscire, né è promosso in termini di intervento utile andare alla ricerca durante le ore di lezione di un soggetto handicappato per portarlo fuori della classe, ne tanto meno può ritenersi idoneo un intervento senza, come spesso accade, una chiara diagnosi ed una chiara ipotesi, ne trova certo ampie risposte positive al fine del superamento delle sue difficoltà, quell’handicappato che carpito dalla classe viene estradato con il pulmino in altro luogo lontano dalla scuola per essere sottoposto a “terapia” confusa spesso con l’intervento rieducativo.
Una alternativa a tutto questo? La risposta si ritrova sulla scia di quanto accennato: una riqualificazione del personale operatore esistente, sia esso psicologo, medico, tecnico della rieducazione o della riabilitazione, affinché sia favorito un reale inserimento, ovviando agli “appoggi” e alle “terapie” selvagge. Per questo innanzitutto dovranno essere privilegiate le capacità diagnostiche cliniche, quindi dal conoscere sarà raggiunto l’operare correttamente con una strategia e una tecnologia che ben dovranno esprimere la convinzione che è dalla conoscenza, dalla consapevolezza e dalla importanza di questa preparazione e dall’analisi del rispetto e del disprezzo che si nutre nei confronti della dinamica dei bisogni che è ad essa legata, che nasceranno le risposte. Ai genitori l’impegno della sorveglianza e della promozione.
In rivista Esistenza 1/1983
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