Da tempo ormai nella nostra società si è affermata la cultura della terapia, di quella parte della medicina (scientia medendi) che tratta la cura delle malattie (artes medendi), dell’arte sanitaria (ars medendi), e del “terapeuta”, particolarmente competente e abile a curare utilizzando i più svariati metodi per alleviare, risanare o guarire, abolendo la causa di uno stato patologico, oppure eliminare i sintomi e le loro conseguenze.
Questa cultura si è diffusa a macchia d’olio, interessando anche altre discipline come la zoologia, la psicologia, il counseling, a conferma che l’Homo habilis o l’Homo sapiens è un uomo malato che deve essere curato con una terapia adeguata, orientata alla cura del corpo o della psiche, oppure dell’una e dell’altra. Tale forma mentis è conformata all’aspetto patologico, all’adattare la persona al deficit, alterandone così il ruolo e il destino.
Il concetto di sanità − che oggi si vuol chiamare salute − che ne è derivato, ha prodotto un assoggettamento dell’uomo alla malattia, attribuendogli l’ispessita eredità di “paziente” e di “diverso” che bisogna aiutare parlando e facendolo parlare, con l’intento di scuoterne i pensieri per “ritoccare” la realtà.
La proliferazione di una cultura terapeutica che qualcuno vuol perfino distinguere tra medicalizzata e non medicalizzata, tra bianca e nera, come se si trattasse di mafia, sostenuta e propugnata come normalizzatrice, insegue il propagarsi dell’idea di malattia, l’uso e l’abuso di consigli, venduti come un’opportunità a cui l’individuo non può rinunciare, costringendolo ad affidarsi a questa forza centripeta divoratrice di ogni autonomia. È un fenomeno di “offerta di aiuto” che risulta incredibilmente intensificato, grazie a notevoli investimenti pubblici e che sanziona una società malata. In realtà, però, in tal modo si trascura la vera necessità di aiuto di chi è profondamente toccato dal disagio, in quanto il punto di maggior presa sulla gente di questa cultura dominante è il sentimento di una crescente inadeguatezza personale di fronte alla gamma di pericoli reali, all’esposizione di vicende della vita privata, di impreparazione nei confronti di eventuali scacchi sul lavoro e perfino di pericoli globali e che induce il bisogno di essere curati e la necessità di offrire cure. Vi sono inoltre molte persone che credono ancora oggi che l’aiuto debba consistere nel condurre l’uomo secondo questa o quella teoria della personalità o secondo i principi della consulenza, dell’incoraggiamento e del consiglio, suffragati dalla parola che in tal modo assume il valore di farmaco.
La pratica clinica del reflector non è da confondere con teorie e metodi psicoterapeutici vecchi e nuovi o con qualsiasi altro tipo di procedimento, neppure se impiegato come ingrediente complementare. Essa è innovativa, alternativa alle terapie, sosta su progetti di riforma affini ai diritti legittimi dell’individuo e promuove, come si è già avuto modo di evidenziare, il rapporto interpersonale.
Nella pratica clinica del reflector, la persona non si rivolge a uno specialista abile speleologo o chirurgo dell’anima auspicando che conosca l’essere umano nel suo profondo, al punto da offrirgli precisi e numerosi consigli o che sia capace di capire e curare la sua personalità fino a restituirgli la sua profonda autenticità e la sua libertà interiore, per soddisfare la persona, il reflector non deve offrirle qualcosa o restituirle qualcos’altro, né cercare o esplorare per lui, che − evidentemente molto paziente −, attende distesa o comodamente seduta. Il percorso clinico di questo metodo è tracciato da una differente concezione della persona, che non è vista come paziente in attesa, appunto, ma come un essere umano dotato di enormi ricchezze e una notevole forza interiore, in grado di intraprendere un’analisi di sé e trovare le chiavi idonee ad aprire quelle porte che gli permettono di scoprire e conoscere il grande potenziale di energia che possiede e che è rimasto per tanto tempo inesplorato.
Tramite l’arte della nuova maieutica, il reflector ha l’obbligo di favorire lo sviluppo di tutte le forze alleate nel percorso di conoscenza; egli non è chiamato ad ascoltare le richieste dei “pazienti” per poi aiutarli a prendere coscienza dei loro interessi ed elaborare assieme una risoluzione, non pone domande, né per aiutare a chiarire il conflitto né per raccogliere dalle risposte i contenuti da elaborare allo scopo di fare proposte sul modo in cui giungere alla soluzione dei problemi, né tantomeno per riepilogare semplicemente ciò che dalla persona ha sentito dire. Egli offre una dimensione relazionale in cui essa possa espandere la possibilità di rivivere soggettivamente e dare significato alle proprie esperienze, trovare personali risposte per liberarsi dal dominio delle regole, dei divieti, dei vincoli e delle proibizioni e da tutto ciò che ne ha frenato, ostacolato, impedito un’esperienza positiva di vita, ricreando favorevoli condizioni di sviluppo.
Il reflector è impegnato a sollecitare efficacemente il soggetto a riflettere sulle proprie esperienze, sulle false o deviate prospettive, su complessi di cui ignorava l’esistenza, consentendogli di ritrovarsi, guadagnare una vera rinascita, giungere a una rivelazione di sé a se stesso. Un approccio dinamico per stimolare preziosi approfondimenti, offrire l’opportunità di analizzare il percorso di vita, facilitare la riflessione fino a realizzare una riduzione delle ansie e delle sofferenze, una spinta all’azione, una maggiore fiducia, un cambiamento, un miglioramento delle capacità critiche e una maturazione della vita psicologica o della personalità. Attraverso il reflecting la persona assume consapevolezza nelle proprie abilità e potenzialità, la coscienza di essere responsabile delle proprie azioni e grazie a ciò realizza di poter fare delle scelte, spingersi in nuove direzioni, affrontare discrepanze e problemi con maggiore efficacia, acquisire il potere di prendere delle decisioni che incrementino la crescita, fino a raggiungere la capacità di tollerare le frustrazioni, ottenere un’accresciuta autonomia, favorire certi traguardi evolutivi, giungere a nuove e diverse soluzioni. Una modificazione di aspetti caratteriali che coincide con una diminuzione delle inibizioni, un aumento della sopportazione delle tensioni e un’espansione delle possibilità di realizzazione, nonché con la capacità di organizzare in modo efficace la propria vita e prevedere gli effetti di una determinata condotta, riconoscere i propri limiti, ma anche le proprie qualità, migliorare i rapporti con se stessi e con gli altri.
La regola-base per il reflector è quella di disporsi all’ascolto con tutta la sua umanità, utilizzando i sensi, le emozioni, l’intelletto, la fantasia. Il suo deve essere un ascolto globale col “terzo orecchio” e “con gli occhi”, per cogliere ogni manifestazione di agio o di disagio e intervenire ogni volta con adeguati stimoli, nella consapevolezza che “col solo esprimersi verbalmente non è mai guarito nessuno”. Ascolta la persona che a lui si rivolge con rispetto, in modo partecipe, segue ogni scenario narrato del suo quadro di vita, della sua situazione d’insieme e la favorisce nell’avvicinarsi a fatti e situazioni e nel sostare su di essi, senza escludere dall’analisi nessuna componente sociobiopsichica.
Il reflector deve rendere le ore di intervento tra le più significative della vita della persona, non deve perdere occasione per inviarle, con inalterabile validità, ciò che le occorre per aprirsi spontaneamente e continuare a muoversi nell’intreccio della propria vita, per interpretare e modificare valenze, giungere a una verità operante, mettere in moto ed alimentare quella “piattaforma girevole” che consente l’attivazione delle sue energie produttive.
Il reflector non mira all’obbedienza, all’autorità, all’adattamento, ma al successo dell’interesse radicale di ogni uomo reso cosciente, spinto verso energie inattinte, sul modello del “maestro del ritorno” talmudico, che ha conosciuto il peccato e, forte di questa conoscenza, riprende la via del proprio essere se stesso.
In tale prospettiva non saranno mai le parole di un terapeuta a infondere occasioni di cambiamento, ma un’indispensabile forza comunicativa capace di suscitare una vasta eco, di creare e offrire un rapporto favorevole, sicuro e stabile, in linea con quella cultura di valori simpatetici propria del reflector.
La persona, sollecitata nell’attitudine personale a interrogarsi, ad aprire gli occhi e guardarsi, nella ricerca di risposte al suo modo di reagire e alle proprie ansie, genera da se stessa lo sperimentarsi nell’essere, una polarità dell’individuale e dell’universale che divengono compresenti e tesi alla distinzione e all’unità a un tempo.
Il reflector non è alla ricerca di risposte e spiegazioni alle domande sui sintomi o sulle vicende di vita del soggetto; utilizza messaggi-stimolo che possano destare in lui la disponibilità all’analisi, la volontà e capacità di pensare in modo autonomo, di produrre convinzioni proprie, sintoniche con l’intera personalità, di prendere coscienza e di compiere l’azione stimolatoria interiore, quell’espressione produttiva, che può accenderne ed esaltarne con vitalità i tratti individuali. Il compito del reflector è quello di far rivolgere alla persona un’occhiata a se stessa, in se stessa, per rendersi conto se le foto della propria immagine sono sfocate, e mantenerla in una condizione di domanda, cioè di desiderio, per meglio delinearle e renderle nitide. Ed è proprio il desiderio che fa affiorare alla mente, dai ricordi nebulosi del passato, percezioni indefinite, forme diverse, suoni, profumi, sensazioni confuse, solo apparentemente prive di significato, a cui il soggetto ha bisogno di dare una conformazione reale, ricostruendo e spiegando altresì il filo che le unisce, e attribuire loro una valenza di vita vissuta o comunque sentita. Questo filo si dipana in immagini e attraverso una ricerca personale, un’esplorazione interiore, una riflessione, risponde al potere evocativo, è indenne dalle contaminazioni della parola e, da messaggio vago, si caratterizza con espressioni sempre più certe.
Nel suolo scavato, nella terra risvegliata si ritrova l’anello di congiunzione con le radici lontane; i reperti aiutano i ricordi a formularsi nella mente, a rigenerare conoscenza che feconda l’ambiente sterile e arido, fino a germogliare una storia che dà sapore e arricchisce.
Dare luce e significati agli aspetti di vita, far divenire conscio un contenuto inconscio, fare emergere a poco a poco quello che il soggetto non sa e non sa di sapere, deve essere un atto di scoperta spontaneo, assecondato e facilitato da idonee stimolazioni e non da spiegazioni o interpretazioni complesse. Ciò richiede uno sforzo nell’attività analitica, un’impostazione di personale responsabilizzazione, conseguente a un aiuto stimolatorio-comunicazionale che rende possibile mettere in moto tutte le dinamiche che altrimenti rimarrebbero bloccate e consente, con un valido svolgimento della relazione, la realizzazione dell’immagine e una positiva maturazione per rinvenire e accertare la base originaria della propria identità e agire grazie a ogni riconosciuta e liberata potenzialità.
Dovrà essere la buona abilità del reflector, il suo giusto uso delle sollecitazioni alla riflessione a liberare e rendere produttive le riserve di energie e a tenere viva l’attenzione di quelle persone che, durante il processo analitico, presentano resistenze a perseguire nella direzione verso l’affermazione di una conoscenza. Non ci sono parole per fronteggiare le resistenze, né spiegazioni, valutazioni o interpretazioni delegate ad altri, che rischierebbero di alterare ulteriormente il clima e di rafforzare l’opposizione; solo la persona può sperimentarsi nella sua profondità e trovare in sé le risposte utili.
La conoscenza sarà meno misteriosa, se essa è aiutata a vincere la paura di perdersi nel buio, a evitare la pena dell’affanno per l’assoluto bisogno di procedere verso l’evoluzione e la maturazione del Sé. Un percorso che trova, grazie alla professionalità e all’esperienza del reflector, l’occasione per vincere ogni precarietà e lo spazio in cui muoversi nella direzione di significativi rapporti sinergici.
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