EMANUELA BALDESCHI
[/pt_text]Non intendo approfondire i nessi tra l’attività estetica della persona e l’evoluzione di determinate patologie del linguaggio, mi preme invece spostare la discussione su un terreno eminentemente pedagogico e didattico, considerando un po’ più da vicina l’eventuale correlazione tra sviluppo della espressività nel campo delle arti plastiche e figurative da un lato, e d’altro lato affinamento della competenza linguistica in senso stretto.
Sulle possibili definizioni dell’espressione artistica, dei prodotto estetico sono tali e tante le trattazioni da rendere superfluo anche un semplice accenno; qui interessa però richiamare quegli orientamenti teoretici che pongono in rilievo gli aspetti «comunicativi» dell’arte, ovvero quelle teorie che mostrano come, al di là del risultato qualitativo, legato al gusto, alla tecnica, ecc., ogni prodotto estetico nasce da una « intenzione comunicativa» ossia presuppone l’esistenza di un interlocutore e quindi di una relazione che si stabiliscono tra artista e fruitore. L’intenzione comunicativa equivale al bisogno di rendere partecipe almeno un altro interlocutore (talvolta se stessi) di un contenuto emozionale o fantastico che preme per uscire e vuole materializzarsi in suono, colore, parola, gesto ecc.; l’autore muove dal presupposto, spesso inconsapevole, di appartenere ad un corpo articolato, nel tempo e nello spazio, si sente parte di un sistema di rapporti interumani che per lui riserva il ruolo di attore, per gli altri quello di coattori o di spettatori.
In questo senso quindi, educazione all’arte equivale in certo modo ad educazione a comunicare, ossia a emettere messaggi e ad ascoltarli; dunque è corretto ritenere che solo se si verifica a le condizioni che di una qualsiasi interazione umana fanno una autentica interazione comunicativa, solo in questo caso si può parlare di intervento pedagogico e didattico nel campo della Educazione Artistica.
Comunicare, tra esseri della nostra specie, significa sentirsi non isole, ruota, odi, ma membri di un sistema di relazioni, costituito in modo tale che il cambiamento di stato verificatosi in una unità si ripercuote sulle altre e questo processo di reciproca influenza non ha termine.
Comunicare, nel senso più autentico, implica il riconoscimento reciproco di determinati ruoli e la loro accettazione: nel nostro caso implica il riconoscimento del ruolo di « allievo » anche riferito al bambino non consueto, con qualche difficoltà di linguaggio. Di qui un comportamento che prenda sui serio le sue richieste e le sue risposte.
Sono troppo noti gli effetti delle aspettative che l’adulto nutre nei confronti dell’alunno sul suo effettivo rendimento scolastico per meritare approfondimenti in questa sede. Vegliamo invece mostrare, a titolo esemplificativo, una possibile via operativa che può favorire la pienezza della comunicazione, una interazione quindi tale da potenziare
capacità e le abilità di ciascun allievo, valorizzando quanto di familiare e di noto essi già posseggono e mettendo in comune i progressi, in modo tale che la crescita collettiva attorno ad una attività promuova la crescita del singolo.
Per molti anni la didattica dell’Educazione Artistica ha coinciso in pratica con lo studio passivo della tecnica del disegno e con un apprendimento prevalentemente mnemonico di elementi di Storia dell’Arte. Però non è neppure sufficiente prevedere determinate strategie didattiche perché queste trovino anche realizzazione nella d’altro canto è difficile operare quella rivoluzione copernicana che pone il soggetto dell’apprendimento al centro dell’opera educativa e didattica se non dopo un lungo e mai concluso processo di affinamento e di ridiscussione.
Perciò abbiamo assistito ad una serie di prove e pasticci, non sempre sorretti da corrette indicazioni metodologiche e non sempre inseriti in un lavoro sistematico di assimilazione e rielaborazione delle tecniche studiate.
Di fatto si stava abusando del termine « sperimentare » tradendo però lo spirito dell’etimo (da experior, ricerco); inoltre le proposte didattiche, apparentemente imperniate sull’attività dei ragazzi, finivano per rimanere lontane dai loro interessi e non comprese da essi nei loro obiettivi; in tal modo si riproduceva, nonostante le buone intenzioni, il meccanismo di apprendimento passivo, trasportato su di un piano manipolativo o prassico in generale.
È stata trascurata la connessione esistente tra il momento dell’ideazione (immagine mentale) e quello della realizzazione tecnica; è passato in secondo piano cioè uno degli aspetti fondamentali e peculiari dell’arte: il fatto che essa affonda le sue radici in una intenzione comunicativa.
Se dunque siamo persuasi che l’arte, al pari e forse prima di ogni altro linguaggio, è comunicazione tra individui della specie umana, è opportuno, in questa sede, riflettere sui vari aspetti di questo processo, ed in particolare sulla importanza di un « feedback », sul rilievo che acquistano i cosiddetti « messaggi di contenuto » (ciò che si dice in termini formali) ed i messaggi di « relazione » (quale ruolo si assegna al nostro interlocutore e quale ruolo si riserva per noi stessi).
In questo contesto, se cioè si considera la classe come uno tra i molti possibili « sistemi di relazioni », di cui fanno parte alunni ed insegnante, e i cui membri sono interdi-pendenti, torna opportuno fare alcune considerazioni sul clima che occorre instaurare al fine di costituire terreno favorevole allo sviluppo, e talvolta al decollo della espressione verbale nei soggetti più restii, in quei soggetti che si collocano al margine della conversazione didattica, o per scarsa iniziativa o perché ricorrono ad un linguaggio troppo povero e stereotipato.
Spesso il tempo scolastico dedicato all’attività artistica è un soliloquio dell’insegnante che, invece, dovrebbe essere pronto ad ascoltare quanto i ragazzi hanno da dire, o più precisamente fare attenzione a decodificare i singoli messaggi spesso nascosti in simboli, imbrogliati in stereotipi, o ancora allo stato embrionale. E essenziale che non vadano perduti i primi segni espressivi: talvolta gli allievi vogliono dire ma non sanno come fare; in questo caso l’obiettivo consiste nell’aiutarli a trovare un canale espressivo che veicoli all’esterno l’idea, in altre parole di tratta di superare quella strozzatura, evitando cosi che cada nel silenzio, o nella ripetizione monotona e stereotipata l’energia di un pensiero, la necessità di un racconto.
Se non si compie in tempo questa operazione di raccolta, il ragazzo rinuncia, diventa passivo, quasi si spengesse in lui il bisogno ed il piacere del dire, rifiutandosi di partecipare perché si riconosce incapace, o impotente. Appartengono a questo quadro di rifiuto per presunta incapacità i tipici atteggiamenti di ammirazione peri « bravi » (non è forse diffusa l’ammirazione, lo stupore per l’opera degli artisti perché « privilegiati », ispirati da chissà quale musa? Non è luogo comune riconoscere con naturalezza che — non so disegnare, sono negato per l’Arte? — Ma non è altrettanto vero che in caso di difficoltà linguistiche (trovandosi all’estero, mancanza di codice comune, o anche difficoltà ad esprimersi verbalmente un concetto) gli stessi che si definiscono negati per la grafica ricorrono al disegno, ad esempio per rappresentare un percorso stradale)? Questa spaccatura si ripropone in classe e se non è controllata subito, conduce alcuni elementi nel pozzo della non-comunicazione.
Alla luce di queste brevi considerazioni, possiamo affermare che molte sono le valenze dell’Educazione Artistica utili allo sviluppo della comunicazione in generale, prima, e al rafforzamento delle competenze del linguaggio superiore dopo, purché si verifichino determinati presupposti pedagogici rappresentati da un lato da una metodologia capace di catalizzare tutte le energie potenziali del soggetto, legando motivazioni e proposte contenutistiche, e dall’altro una interazione gestuale e verbale fra allievi ed insegnante che crei un clima adatto a farlo procedere verso forme espressive più evolute.
Occorre impostare subito una strategia che preveda un team di lavoro in cui ciascuno possa dimostrare una specifica padronanza, proporre delle attività nelle quali ognuno possa ricoprire un ruolo e svolgere una funzione, sentirsi, in pratica, « indispensabile » alla riuscita del progetto comune, al pari degli altri. Fin dall’inizio è opportuno scoraggiare gli atteggiamenti da « artista », valorizzando viceversa la dimensione artigianale.
Ma la integrazione scolastica, la fluidità nella comunicazione, la ricchezza di linguaggi, debbono trovare una attività concreta sulla quale articolarsi, una attività che sarà « il referente » dei messaggi più significativi, « l’argomento » proposto per le varie forme di comunicazione.
Potremmo certamente proporre l’uso di una tecnica facilmente controllabile, diciamo la tempera, solitamente già conosciuta dai ragazzi per esperienze precedenti; solo che proprio per questo motivo essa può essere associata ad insuccessi o a risultati molto inferiori alle aspettative; so di ragazzi che avevano necessità di formare un certo verde, e si sono ritrovati con il piatto pasticciato di blu, il tubetto del giallo vuoto, senza aver composto il verde ricercato.
Inoltre va osservato che certe tecniche, proprio per essere già familiari e molto diffuse nella scuola, non sono in grado di incuriosire gli allievi: occorre allora fare apparentemente qualche passo indietro, per attestarsi su un terreno che sia sicuramente inesplorato, assolutamente nuovo, affinché essi possano realizzare davvero la « scoperta » del colore.
All’inizio, per ottenere il massimo coinvolgimento ed un vero interesse, può essere di aiuto il momento della meraviglia ottenuta magari con una provocazione del tipo: –i colori che escono dai vostri tubetti si trovano così in natura o sono « fatti » in qualche modo? E come? E con che cosa? –. Certo avremo la loro stupita attenzione quando mostreremo dei sassi da tritare e macinare per ottenere pigmenti, delle uova per mesticare le polveri, dell’aceto per disperdere la materia colorante nel composto, e dell’olio per « veicolare » l’impasto. Difficilmente rimarranno indifferenti a: –Facciamo la maionese o prepariamo una tempera? Gli ingredienti sono gli stessi! –Vedremo che adesso saranno loro a voler-ne sapere di più; a manifestare il desiderio di fare, di provare, di capire com’è che succede che la stessa polvere « cambia » se associata a diverse sostanze, e in genere si tratta di sostanze alimentari, o comunque facilmente reperibili. Meglio: chiederemo proprio a loro di indicare gli ingredienti da usare come collanti osservando e confrontando il loro grado di « appiccicosità », facendo appello alle loro esperienze personali.
Questa rivisitazione del quotidiano, questa consegna apparentemente banale incoraggerà l’intervento degli elementi « periferici » della scolaresca; la necessità di mettere in comune le conoscenze favorirà lo scambio, la comunicazione, anche sul piano verbale in senso stretto.
Avevamo accennato sopra all’opportunità di far mutare l’habitus mentale dei ragazzi, indirizzandoli verso la mentalità dell’« artefice », del « faber », di colui che fa sapendo quel che fa e che acquista esperienza « in itinere », utilizzando anche errori e lacune del prodotto che fabbrica, che sa imboccare vie alternative e secondarie per raggiungere, con altri mezzi, quelli che l’inesperto non potrebbe ottenere, avendo appreso le tecniche solo in maniera scolastica ed astratta. Spesso però permangone parlare ed inibizioni che bloccano le performances di coloro che si sentono perdenti a priori.
Ci rivolgiamo quindi verso attività in cui l’errore, la lacuna sia occasione di crescita, di soluzioni nuove, inattese, in cui lo sbaglio possa dar luogo ad un esercizio del « pensiero divergente » piagetiano; e una di queste è l’acquerello.
Di solito questa tecnica non viene usata nella scuola perché ritenuta raffinata e difficile da padroneggiare, il che è indubbiamente vero se si vuole ottenere un prodotto di livello elevato, professionale, ma noi educatori non siamo deputati alla formazione di artisti, noi dobbiamo aiutare delle persone a crescere, a trovare cioè un equilibrio con l’esterno, ad esprimersi valorizzando le proprie potenzialità e le proprie risorse.
Pertanto ben venga l’acquerello: con naturalezza noi pasticceremo un po’ sul foglio e mostreremo subito come si corregge in caso d’errore; facendoci aiutare dal ragazzo passeremo il foglio sotto il rubinetto; la leggera pressione dell’acqua corrente asporterà le particelle di colore senza danneggiare la carta che tornerà pronta ad essere ridipinta.
Questo tranquillizzerà il ragazzo che muterà il suo gesto da breve e contratto in ampio e sicuro, disposto finalmente ad invadere il foglio, superando la consueta paura del bianco.
D’ora in poi l’organizzazione flessibile del lavoro assume importanza è determinante; e tale flessibilità deve scaturire dalle capacità e le attitudini dei singoli soggetti, in modo da attribuire a ciascuno compiti, assegnare consegne credibili, ossia né troppo elevate né troppo infantili. Ci saranno quindi vari gruppi ai quali viene assegnata una singola fase del progetto generale.
Un ottimo modello può essere costituito dalla « bottega Medioevale »: avremo quindi i produttori :di pigmenti, coloro che:depureranno le polveri, i mesticatori e così via.
Il lavoro di ciascuno è indispensabile per il lavoro degli altri; anche se diverse, tutte le attività hanno pari dignità, ognuno sarà ora protagonista, ora gregario, ora semplice spettatore, ora consigliere. Dal punto di vista della risonanza che queste attività hanno sui ragazzi, possiamo dire che il denominatore comune di tutte le attività proposte in questo contesto è la riscoperta del gesto quotidiano, quello conosciuto in contesti diversi: si travasa, si cola, si impasta, ma, facendo parte di un lavoro organizzato e finalizzato ad un obiettivo conosciuto precedentemente e condiviso da tutti, essi sentono il bisogno di ragionarci sopra, di sapere il perché di quelle che fanno, di confrontarsi, e facilmente da questo modo di operare nasce la « necessità » di fornire o ricevere una informazione più completa; questo appare il terreno migliore per una comunicazione verbale sempre più complessa ed articolata.
La preparazione dei colori prevede una serie di operazioni semplici ma rigorose, ordinate secondo una logica; si fanno « pasticci intelligenti » e questo abitua da un lato a riordinare mentalmente delle sequenze, d’altro canto costringe a progettare un insieme di azioni.
Come in una scatola cinese, ogni elemento, ogni insieme di elementi appartiene ad un progetto più ampio: il successo ottenuto nell’esecuzione di una singola fase è di rinforzo per quella successiva; la loro stratificazione compone una competenza che adesso non è solo gestuale o relativa alla manualità.
In questa prima fase è particolarmente importante il tipo di interazione verbale allievo-insegnante: questi risponderà, ma non « darà risposte », in compenso chiederà molto; aprirà continuamente spiragli per andare ancora più indietro e più a fondo; indicherà una direzione o più direzioni, e chiederà quello che il ragazzo sta trovando inducendolo a verbalizzare come in uno strano gioco di esploratori in cui gli allievi portano notizie e scoperte al maestro.
Egli non si lascerà sfuggire le occasioni propizie per far aprire il ragazzo: chiederà di essere aiutato se intuisce che l’operazione che sta compiendo può essere per l’allievo una ulteriore scoperta, fonte di rinnovata curiosità.
Poniamo stia grattando una incrostazione di intonaco a rilievo alto e a doppio colore: occorre ben poca abilità manuale per ricavare forme interessanti ed improvvisi scoppi di colore.
Allora non « cederà » il compito, ma chiederà di essere affiancato nel lavoro, come per necessità o per stanchezza.
Si formerà presto un clima quasi di complicità in cui è più facile comunicare: si tocca con le mani, si guarda con gli occhi e si pensa: vien facile parlare, operando così, e le riflessioni possono assumere la forma compiuta, con coordinate, subordinate, nessi logici, insomma trovare espressione in un linguaggio formalizzato, tecnico; la riflessione si fa parola parlata ed emerge fino a raggiungere la superficie.
Vedendo nascere un colore o una materia, si familiarizza con questa, si impara a riconoscerne le intrinseche qualità; se si ha la possibilità di controllare la composizione e gli ingredienti, la materia pittorica risulta facilmente personalizzabile, diventa qualche cosa di unico: la gamma cromatica si amplia e si valorizza l’unicità di ciascun elemento.
In questa fase assumono una importanza di prim’ordine gli stimoli che l’adulto riesce ad offrire, gli « input »; essi si configurano come opportunità per arricchire il repertorio dei mezzi espressivi, delle condotte comunicative gestuali, ma soprattutto linguistiche del ragazzo; sarà molto importante il rapporto con gli « stereotipi », quelle condotte, quei valori, quei simboli acquisiti passivamente dall’allievo, che sono così lontani dalla elaborazione personale, ma che per il momento sembrano costituire tutto il suo patrimonio espressivo. L’insegnante avrà cura di prenderli in considerazione e di partire da essi per costruire una nuova consapevolezza nel ragazzo intorno ai suoi mezzi espressivi.
Verso la fine di questa prima fase l’alunno arriverà da solo a classificare « piatto » il segno del pennarello, sempre uguale a se stesso ed a quello dei compagni.
Lo stereotipo non è stato attaccato brutalmente, mortificando il ragazzo che inizialmente lo aveva adottato, ma è stato gradualmente sostituito.
Adesso il gruppo è pronto ad affrontare la seconda fase: il passaggio dal momento iconico a quello iconografico.
Con il problema della rappresentazione formale emerge la necessità di guardare la realtà con occhio diverso, più critico, ed insieme il bisogno di trovare una guida, dei modelli per superare meglio le difficoltà. Ed ecco l’approccio al testo scritto ed illustrato.
L’atteggiamento del ragazzo anche in questo caso è in genere fecondo di risultati sul piano educativo e didattico: è lui che cerca il libro, non gli viene imposto; sa esaltare la luminosità di un giallo, ma non sa come contenerla in una forma: allora cerca, studia, apprende per necessità.
L’insegnante continua a sostenerlo, lo aiuta ad impostare il problema in maniera esauriente, ad individuare con chiarezza l’obiettivo e le varie possibili vie risolutive, però continua a non dare soluzioni. Alimenterà sempre la motivazione e, se prima induceva l’allievo a fare un discorso sulla materia, ora lo indurrà a fare una riflessione sulla forma perché egli diventi sempre più consapevole del prodotto.
Questo è un momento importante perché implica e rafforzai contenuti didattici della fase precedente, ed è interessante perché essendo di livello superiore, necessita di un supporto linguistico più elevato: compare spesso una maggiore proprietà di linguaggio e vengono migliorate le strutture grammaticali.
Le parole-problema imparate prima, usate quasi ecolalicamente o magari appena decifrate, adesso vengono impiegate perché funzionali, cioè indispensabili per ottenere altre informazioni necessarie ad andare avanti.
L’ultima fase è il momento iconologico: graficamente è il livello più alto perché sintesi ben strutturata delle precedenti esperienze; di solito si accompagna ad un’espressione verbale più raffinata e completa.
Adesso i ragazzi sono in grado di manipolare oggetti e materie per fare un rosso carminio (porpora), distinguendolo tra altri rossi; lo sanno denominare come carminio perché era necessario imparare questo termine per non confonderlo con altri rossi; sanno usare il carminio per dipingere l’abito di un cardinale; hanno dovuto consultare dei testi per trovare delle riproduzioni di cardinali, confrontandole tra loro; si sono chiesti perché un cardinale è vestito di carminio e non di vermiglione; per necessità hanno riflettuto sul valore di un simbolo (e se i cardinali non fossero vestiti di carminio si chiamerebbero porporati?) e quindi sui rapporti di causa-effetto.
Allo stesso modo può accadere che un alunno che in ottobre non conosce il significato di tappezziere o elettricista, a maggio manipolando gli elementi di un tempio greco, sintesi finale di un lungo gioco condotto in un clima come quello sopra descritto, dopo aver innalzato le colonne chieda al compagno di porgerli un « echino » o un « abaco » semplicemente perché si chiamano così.
Se poi un altro allievo con disturbi di linguaggio, guardando un giornale arabo si accorge che: — non è scrittura cuneiforme — allora forse vorrà dire che l’esercizio dell’arte, come il linguaggio, sono degli, stati di necessità.
Un celebre retore latino soleva dire: « se ti è chiaro cosa devi dire, non preoccuparti, le parole verranno da sole »: « rem tene, verba sequentur ».
Da Rivista L’insegnante specializzato 2-3/95
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