Leonardo, vocazione educativa

leonardoLa critica idealistica, sostenne giustamente, che per Leonardo l’intelletto si identificava con la ragione delle cose, ma a torto ritenne elemento di debolezza filosofica la predilezione per il fatto sensibile. Se Leonardo disprezzò la vanteria fratesca di possedere “tutti li segreti”  e perciò volle osservare i fenomeni naturali con la nota dedizione sperimentalista, ciò fece in quanto fu convinto che lo spirito si fenomenizza nella materia attraverso il movimento evoluzionisticamente orientato al ripristino, maggioritario, di un equilibrio infranto. La univocità dei due assunti apparentemente dissonanti: che “la cosa si è cognita per mezzo del nostro intelletto” e che “ogni nostra cognizione principia da sentimenti” ossia dalle percezioni sensoriali, è a fondamento della costruzione filosofica. Donde l’esigenza educativa che increspa tutta la sua opera e, pur senza calarsi in stampi ideologici sistematici, segna indicazioni rilevanti. La stessa raccomandazione di fidarsi di sapienza in tempo di gioventù; l’incitamento ad esercitare l’ingegno, pena il suo decadimento come accade al ferro arrugginito ed all’acqua putrefatta; la esortazione a condurre avanti la ricerca a costo di una fatica, la cui perseveranza sia garantita dall’iniziale spontaneità di slancio, attestano una vocazione educativa, che l’opera più direttamente pedagogica, il Trattato sulla Pittura, concreta e delucida.

A dire il vero, chi legge gli scritti di Leonardo ne riceve la impressione che, per lui, gli uomini siano discriminati tra loro da un grado di educazione innata; e ciò potrebbe essere giustificato dalla esperienza prenatale compiuta nelle precedenti esistenze terrene, giusta la concezione ermetico-neoplatonica assorbita nell’ambiente mediceo durante la giovinezza. Una volta asserito che bene supremo dell’anima è il sapere, riesce poi difficile conciliare ciò con l’assunto che “naturalmente li omini boni desiderano sapere” senza concluderne che chi acquisisce il bene può farlo solo perché è già per natura buono al punto da desiderarlo, e che dunque educati si nasce.

Tale antinomia va di pari passo con quest’altra. Che Dio “vende tutti li beni a prezzo di fatica” e che per fatica si intenda l’esperienza condotta in induttiva ed analitica osservazione e riproduzione dei fenomeni in vista dell’intendimento del loro principio causativo, in lui si trova sempre abbinato al concetto opposto, che l’esperienza è sì tale quando si esercita nella fiducia di attingere la ragione sua prima, epperò l’attinge quando nasce dalla ragione stessa e cioè consegue dai “primi veri e noti principi” i quali di per sé si impongono come certi, o, com’egli dice, riducono al silenzio ogni argomentare, e quando vengono esperiti nella “operazione manuale” (o “meccanica”) che è la forma della ricerca, sono sempre prima nella mente, com’è tipicamente nella pittura;  la quale non perviene a perfezione nel tramite meccanico senza preventivamente proporsi principi di assoluta verità (“tenebre”, “luce”, “colore”, “corpo”, “figura”, “remozione”, “propinquità”, “moto”, “quiete”) comprendibili soltanto con la mente, cosa mai vuol dire, allora, che sono “vane e piene di errori” le scienze, le quali ”non sono nate dall’esperienza, madre di ogni certezza, e che non terminano in nota esperienza”, cioè la cui “origine e mezzo o fine non passa per nessuno dé cinque sensi”, quando si assume anche che non si può operare senza la “scienza che resta nella mente dei suoi contemplanti”, e si raccomanda di studiare prima la scienza e poi di seguire la pratica, nata dalla scienza?

È chiaro che, a prescindere dalla accennata presumibile soluzione offerta dalla credenza ermetica di un peculio empirico nativo fruttato dai precedenti transiti terreni, e da arricchire con l’ausilio di una costante disciplina educativa, c’è da prendere atto della connaturalità diversa da uomo a uomo ad intendere con irresistibile certezza un dato complesso di ragioni. Ed è certo nel riferimento a siffatta disponibilità che l’educazione può esercitarsi, assumendola a puntello deduttivo per la “esperienza maestra vera” di sapere e di retto vivere.

Chiaro anche che codesta connaturale diversità di principiamento intellettivo smista un’aristocrazia dalla maggioranza degli uomini, la cui capacità mentale è legata ai disegni pratici ed alle relative conoscenze utili a soddisfarli. Ma Leonardo fu ben lungi dal dispregiare o trascurare quest’ultima. Benché non abbia fatto professione pedagogica specifica alcuna, la prodigalità con cui dissennò i tesori delle sue aspre conquiste e la solidarietà sociale, pur dissimulata dalla solitudine, attestano la vocazione educativa,  di cui il Trattato è testimonianza più diretta. Perciò i più degli uomini, quelli che sono mero “transito di cibo”, stolti ignari della verace ricchezza, egli li aiutò ponendo a loro frutto i beni, che gli erano stati “venduti” da Dio a prezzo di una delle più tormentose passioni di conoscenza, che la storia della cultura ci abbia tramandato: è per lui compito tanto scientifico quanto educativo delucidare a chi non sa il significato di ciò che ci circonda e ci forma, e che, per essere il più delle volte quanto di più comune possa darci, è negletto e dal filosofo e dal letterato. “Vedendo io non potere pigliare materia di grande utilità e diletto perché li omini, innanti a me nati, hanno preso per loro tutti l’utili e necessari temi, farò come colui, il quale, per povertà, giugne l’ultimo alla fiera, e, non potendo d’altro fornirsi, piglia tutte cose già da altri viste e non aspettate, ma rifiutate per la loro poca valetudine. Io, questa disprezzata e rifiutata mercanzia…, metterò sopra a mia debole soma, e con quella non per le grosse città ma povere ville andrò distribuendo, e pigliando tal premio, quel merita la cosa da me data”.

La rifiutata mercanzia è la realtà sensibile sottomano. Leonardo è così convinto della sua efficacia insegnativa, che arriva a qualificare il cadavere libro che dà precetti utili a ben morire, ed a considerare un Giotto proprio in quanto “guardatore” di capre più che eccelso pittore nato, discepolo della sapienza. Ed è proprio qui che, secondo noi, egli si rivela più dello scienziato che ci è per solito presentato. Quando egli, poniamo, scrive che al “cimento si conosce il fine oro” o che “tal fia il getto”, “qual fia la stampa”, egli applica il principio basilare ermetico del “tanto in alto, quanto in basso”, afferendo l’unità spirituale del reale nella diversità livellare: unità, che riscatta a dignità le cose spregiate, ciascuna chiamata ad incarnare un significato, organicamente inserito in un senso onnicomprensivo. Per questo motivo, egli può parlare del pittore anzitutto come di un uomo ben formato che sa educarsi a penetrare il significato spirituale, che assume figura nella materia. Esser “veditori” delle cose significa studiarne la figura quando sono presenti e contemplarne la immagine quando sono assenti, per ricostruirne le linee di forza che concorrono a rilevare anche le linee prospettiche, e per tal via possedere il loro essere. Ecco, dunque, che la contemplazione della immagine assurge per lui a fatto primario nello sviluppo spirituale umano, quale tirocinio educativo che pretende ad una specie di veggenza spoglia di fabulosità miracolistica, eppure trepida di un amoroso timor Dei, che la ragione quanto più esperta tanto più sa ispirare, inducendo ad una fedeltà di costumi, che la norma confessionale persegue con successo minore.

(tratto da Gentile, M.T. (1965), Immagine e parola nella formazione dell’uomo, Roma, Armando Editore)