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DONELLA BIGAZZI SERGIO GAIFFI[/pt_text]

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La vita di ogni individuo è incessantemente accompagnata dalla paura.

La paura è la rappresentazione dell’inadeguatezza dell’essere umano di fronte a se stesso, di fronte agli altri, di fronte agli ele­menti naturali; di fronte all’irrazionale allo sconosciuto, di fronte all’inspiegabile archetipico.

La paura ha molti aspetti e nessuno ne è immune. Noi che lavoriamo in analisi nei processi individuali, assistiamo costantemente alla rap­presentazione emotiva del linguaggio della

paura. Rappresentazione che si presenta con i volti variegati che vanno dalla timidezza e il timore alle insicurezze più gravi fino alle fobie vere e proprie.

Sono temi complessuali profondi che qua­si sempre affondano le loro radici nella dimensione e nell’esperienza personale e sociale dell’individuo.

Il terapeuta sa che questo è il campo dell’’elaborabile e dell’almeno parzialmente risolvibile. Tutto ciò che attiene a quello che Jung ha chiamato « tema d’Ombra » indi­viduale, tutto ciò cine rimanda a complessi di inferiorità cresciuti nella dimensione socioculturale dell’individuo, tutto ciò che può es­sere ricondotto ad una consapevolezza di senso e riraccontato nell’analisi come una vecchia-nuova storia che si arricchisce di presa di coscienza, può quasi sempre tro­vare una collocazione rasserenante.

In questo ambito della paura convergono altri elementi che si intersecano con essa, come le varie forme d’ansia e le nevrosi d’angoscia.

Ma ci sono altri aspetti, forse più interessanti da trattare e ad alcuni accenneremo brevemente, che toccano luoghi irrazionali e inconoscibili della paura e cine non si moti­vano nella sfera individuale, inconscia-personale e socio-culturale dell’individuo, ma entrano a far parte di quella dimensione che Jung ha definito « inconscio collettivo ».

Su questo argomento, riferendosi ai suoi noti studi sulle realtà primitive, Jung scrive: « ….La realtà esterna non è l’unica fonte della paura, giacché sovente il primitivo paven­ta ancora di più una realtà interna, cioè il mondo dei sogni, gli spiriti dei morti, i demoni, gli dei e da ultimo, ma non per questo meno importanti, gli stregoni e le streghe. Il nostro razionalismo crede d’inaridire que­sta fonte di paura attirando l’attenzione sulla sua irrealtà, il fatto però è che si tratta di real­tà psichiche interne, alla cui natura irrazio­nale non ci si può accostare con motivi razionali ». (Jung C.G., Opere, Voi. V Boringhieri, Torino 1970, p. 158):

Su questa distinzione e sulle diverse quali­tà della paura viene in mente la differen­za fra il φοβos (Fobos) dell’antica Grecia, io spavento irrazionale, il timor panico, lo scompiglio vero e proprio cine era rappre­sentato da una divinità Fobo, figlio di Ares e di Afrodite che simboleggiava lo spaven­to e che insieme col fratello Dimo accompagnava il padre nelle battaglie e δos (Deos), la paura ragionata, frutto di una lu­cida consapevolezza del pericolo.

E a proposito della paura del mondo dei so­gni di cui parla Jung, molti dèi sappiamo, sono nati come esorcizzazione della paura, l’antica Grecia trovò una rappresentazione in Fobetore, personificazione dei sogni spa­ventosi, che fu ritenuto figlio di Ipno e fratello di Morfeo e di Fantaso.

Rimanendo nell’ambito più archetipico e ir­razionale della paura, uno dei terrori più in­tensi che ha popolato l’inconscio universale sia in tempi antichi che in epoca più recen­te, è sempre stato quello suscitato dal calar della notte.

Anticamente « con l’oscurità, gli uomini di­ventavano ancora, più vulnerabili: essendo infatti il loro udito e il lord olfatto molto me­no acuti rispetto a quelli degli animali, il non vedere li privava dell’unica risorsa di cui di­sponevano per avvertire in tempo utile la presenza di un nemico.

Il buio peraltro non nascondeva soltanto pericoli concreti, materiali. In primo luogo, niente e nessuno garantiva che il sole sa­rebbe tornato a risplendere… Da sempre l’immaginazione umana ha popolato le te­nebre di creature maligne, di entità impalpabili e perverso che soltanto la luce del sole è in grado di mettere in fuga,.. Dante, all’inizio della Commedia, racconta dei ter­rore provato nella se/va oscura. Soltanto quando spuntò il sole “fu la paura un poco queta / che nel lago del cor ro’era durata / la notte ch’io passai con tanta pietà”. (Balbi R.- Madre paura, Mondadori, Milano 1984, p. 17).

Molti pazienti, non solo bambini ma anche adulti, non nascondono di dormire con la luce accesa e altri più gravi, spesso invasi dal loro inconscio, di addormentarsi solo alle prime luci dell’alba.

L’oscurità potenzia la precarietà fisica e psi­chica come se qualcosa di innato, gover­nasse i comportamenti di timore.

Alle tenebre interpretate simbolicamente co­me stato di incoscienza, Jung attribuisce “l’irragionevole” paura del buio dei primi­tivi attuari.

“Presso una tribù del monte Elgon, trovai una forma di religione ispirata ad un ottimismo panteistico. Quest’ottimismo veniva pe­rò giornalmente sospeso dalle sei di sera alle sei dei mattino e sostituito dalia paura: perché di notte regna l’essere dell’oscurità, l’ayik, creatore della paura. I serpenti boa, che di giorno non si aggirano in quel­le zone, di notte stanno ovunque in aggua­to. E di notte, generalmente, si sfrena tutta fa mitologia ». (Jung C.G. – Opere, Voi. IX, Tomo I, Boringhieri, Torino 1984, p. )

Freud ha messo in rotazione la paura del buio, all’antica paura dei morti, al timore istintivo e alle vecchie credenze secondo le quali questi, possano trasformarsi do­po la morte in demoni e spiriti, demoni e spiriti che notoriamente popolano le te­nebre.

« Il timore istintivo dei morti è a sua volta il risultato della paura della morte ». (Freud S. – Opere, Voi. VII, Boringhieri, Torino 1980, p. 67)

La paura dei morti nasceva anticamente dall’immagine condivisa, che i defunti, insoddisfatti dei loro stato, tendessero ad at­tivare un’anima inquieta e bisognosa di

tornare in compagnia delle persone di un tempo. A questo essere visitati dall’ani­ma e dallo spirito dei morti, la concezio­ne animistica attribuiva ogni forma di scia­gura.

Anche se oggi l’uomo civilizzato non ragio­na certamente nei termini appena descritti alcune manifestazioni, come ad esempio molte forme più o meno dichiarate di superstizione, o in ambito completamente diver­so molte nuove religioni praticate in massa o certe identificazioni collettive in ogni tipo di cadenza, stanno a testimoniare la disper­sione e la solitudine dell’essere umano di fronte al problema dell’esistenza e ai peri­colo della morte, che non è un fantasma im­maginario, non è un tema solo individuale né tantomeno un sintomo nevrotico, anche se molte forme ossessive e regressive le­gate a questo hanno a che fare con pro­blemi nevrotici, ma è un vero panico istintuale e inconscio.

La vittoria che l’uomo riporta quotidiana­mente sulla vita è sempre provvisoria e l’uomo, ne è consapevole. Quello che poi ulteriormente aggrava la paura, nell’attuale moderna società, è la totale perdita dell’i­dea della morte vissuta come « processo ». Nessun rituale iniziatico specialmente in oc­cidente, prepara l’individuo ad avvicinarsi alla soglia della fine della vita.

…. Un tempo vie principali tappe della vita andavano conquistate. Ora l’accesso è automatico. Doppio è l’impoverimento che ne risulta. Da una parte morire non è più un evento iniziatico. Non è una trasformazio­ne radicale, ma un termine dell’essere. Dall’altra, la morte non è pia preceduta e anticipata da esperienze che fin dalla pubertà, la rappresentavano simbolicamente, consacrandola e disponendo psichicamen­te J’uomo a sperimentare di essa un aspetto positivo, acquisitivo ». (Eliade M. Initistiaon, rites sociétés secrètes. Gallimar, Paris 1959 in Incontri con la morte, Von Franz M.L., Frey-Rohn L., Jaffè A., Zoja L., Corti­na Editore 1984, p. 10.)

La perdita dei valore rituale della morte, ten­de ad attivare e aggravare il tema della paura.

Oggi morire è un fatto puramente legato alla solitudine individuale.

« Un tempo c’era molta più considerazione per l’esigenza profonda di preparazio­ne alla morte, e la cultura offriva spazio e rituali per armonizzare questo bisogno arcaico con i contenuti psichici coscienti. In­nanzi tutto la morte non era un fatto pri­vato ma, come ogni evento ritualizzato, coinvolgeva la collettività… La preparazio­ne alla morte, nella società non industrializzata, era e/o perlomeno si prefiggeva di essere) il compito supremo della vita ». (Von Franz M.L., Frey-Rohn L., Jaffè A., Zoja L., Incontri con la morte, Cortina Editore 1984, p. 12/13).

Nell’epoca attuale, la paura della morte è elevatissima. Le coppie bipolari giovane-vecchio, vita-morte, si sono divaricate in mo­do irreparabile spaccando il processo di crescita dell’individuo, e lasciando nel vuoto di una enorme, forzata rimozione, una al­trettanto grande paurosa estraneazione.

La sorte individuale che non appartiene più e non è più tutelata dai rituali della colletti­vità, trasforma la paura individuale in pau­ra collettiva generalizzata e ingestibile.

Nessuno ne è immune.

In questo senso, riprendendo il discorso fat­to all’inizio, non crediamo che il tema della paura possa essere circoscritto e ridotto ad un aspetto puramente psicopatologico e delle nevrosi fobiche ossessive.

Le due paure sulle quali ci siamo soffermati, quella del buio e quella della morte, che poi si assimilano a tratti fra loro come paura dell’oscurità in senso lato, delle tenebre, dello sconosciuto e dell’inconoscibile, sono an­che e forse soprattutto paure collettive che non possono, secondo noi, essere impove­rite in spiegazioni unicamente sintomatiche. Rendersi conto di questo non significa cer­to rimanere ancora più impotenti o rasse-gnati di fronte al turbamento emotivo della paura ma al contrario significa forse cer­care di imboccare nuove strade, che por­tino verso una riflessione più intima e attenta e che vadano oltre la lettura riduttiva di sintomo nevrotico per favorire la ricerca di una molteplicità di significati più ampi. Si­gnifica inoltre tentare di rivedere la dualità dei termini vita-morte riunificandoli oltre la polarità degli estremi e riimmaginare, co­me ricerca di un senso e di un significato ulteriori, la morte, come processo interno alla vita non come traumatico evento distruttore di essa. E ancora, tentare di riappropriarsi, nei termini e nei modi che ci sono consentiti, di quella dimensione iniziatica-rituale che sola può aiutare l’uomo a ri-congiungersi ai suoi contenuti psichici pro­fondi e alla sua essenza più intima e numinosa.

Estraniato da questo percorso, l’individuo, può solo vivere la minaccia dell’annientamento. « Cerco di accettare la vita e la morte » –scriveva Jung a ottantacinque anni in una lettera ad un’amica — « Se scoprissi di non essere pronto ad accettare l’una e l’altra, mi interrogherei sui miei motivi personali ». (Jung C.G., Lettera alla Mother Prioress of a Contemplative Order, 26 Marzo 1960 in Incontri con la morte, op. cit., p. 23).

E ancora in una lettera ad una destinataria anonima: « Ho buoni motivi per supporre che le cose non finiscano con la morte. Sembra che la vita sia un intermezzo di una lunga vicenda. Esisteva già prima che esistessi io e continuerà molto probabilmente anche dopo, quando sarà finito quest’intervallo conscio in un’esistenza a tre dimensioni ». (Jung C.G. – Lettera a destinataria anonima, 19 Novembre 1955 in Incontri con la morte, op. cit., p. 27).

Da Rivista L’insegnante specializzato  1/94

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