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GUIDO PESCI

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Incontrare soggetti che si propongono con una produzione segnicografica deficitaria rappresentata dalle tracce del percorso cinetico di una mano incerta è assai frequente. Può trattarsi di un soggetto povero, inadeguato, impacciato nella propria produzione grafo-espressivo-segnica e per questo definito disgrafico. Una definizione quella di disgrafia fino ad oggi am­piamente confusa con il disordine nella espressione ortografica; un intreccio e una collusione da cui si è ingenerato un ulteriore abusivismo avventuroso e confuso con il termine onnicomprensivo di difficoltà di scrittura.

L’accozzaglia, la mescolanza, la confusione intorno al problema della disgrafia è ampiamente documentato dalla letteratura, un caos copiosamente attestato ad esempio dalle definizioni quali: “Difficoltà di acquisizione della scrittura di soggetti con intelligenza normale”, “Irregolarità di associazione diretta tra lettura, audizione e scrittura”, “Incapacità di scrivere intelligentemente”, “Difficoltà di apprendimento della scrittura, in cui il soggetto non riesce a collegare i suoni (lettere o parole), che pure capisce, con i rispettivi simboli grafici”. Altrettanto testimoniali di caos interpretativo, valutativo e appellativo scientifico sono le considerazioni che studiosi fanno intorno al termine disgrafia quando riferiscono:

“Difficoltà particolare che provano i bambini di fronte alla scrittura”, “Le condizioni patologiche di base della disgrafia sono la capacità richieste per la acquisizione del linguaggio scritto”, oppure quando includono la disgrafia nelle LD Learning Disabilities e la comprendono nel termine dislessia.

Per il maggior numero dei ricercatori la disgrafia è intesa come un disordine nella rappresentazione delle parole nella scrittura, come un disturbo della scrittura, come una alterazione delle caratteristiche formali della scrittura, ossia una difficoltà nella produzione dei simboli alfabetici o nella distribuzione di lettere o sillabe che formano la parola. Nei loro lavori molti autori nel riferirsi alla disgrafia propongono all’attenzione la irregolarità di associazione tra lettura, audizione e scrittura, la deficienza di memoria audiovisiva e la confusione fra m/n, p/b, t/d, u/v, l/r, s/z, fra “e” e “g”, cu-­qu-gu, la difficoltà nell’uso delle “h” specie dopo la “c” e la “g”, errori nel plurale dei nomi che terminano in “ca”, “ga”, “co”, “go” e nella coniugazione dei verbi specie in “care” e “gare”. Sono autori evidentemente dimentichi che questi disordini sono propri della disortografia, autori incapaci anche di discernere la diversità tra il pronunciamento segnico­grafico e l’uso scorretto della punteggiatura, delle maiuscole, dell’articolo, dell’apostrofo, dell’accento o del disordine nella divisione della sillaba e nell’uso della sillaba e nell’uso delle doppie.

Insomma dalla concorrenza delle locuzioni usate per riferirsi alla disgrafia e dal pressappochismo che abbiamo letto, la confusione è totale.

Tanti codici capricciosi da creare sconcerto, manierismi verbali e percorsi realizzativi che oscurano la diversità fra disgrafia e disortografia e che non considerano della scrittura la specificazione tra suono-simbolo e segno grafico. Grossolane limitazioni valutative e interpretative che hanno creato non pochi inconvenienti e svantaggi specie perché è su questi orientamen­ti che finora sono state edificate le tecniche per fronteggiare la disgrafia e aiutare il soggetto che presentava questo disordine.

Per uscire dal caos occorre ora invertire questa infelice condotta.

La disgrafia è una difficoltà che si manifesta per mezzo della rappresenta­zione grafo-espressivo-segnica ed è quindi certo assai complessa non da confondere con la disortografia, col termine includente di scrittura, o con la parola dislessia.

Al pionierismo si impongono nuovi orizzonti e nuove riflessioni che esigono non solo di uscire dalla confusione che abbiamo rilevata ma anche ad in specie di riconoscere il soggetto, la persona portatrice di difficoltà, perché solo così è possibile costruire ipotesi operative idonee a garantire una maturazione espressivo-segnica.

Dalla disgrafia, finora tanto confusamente intesa, dobbiamo quindi muoverci, con buon senso, verso la persona che ha difficoltà nella produzione e comunicazione segnica espressa in ogni occasione del lasciare traccia, ossia nei vari momenti che può intrattenersi ad incidere, disegnare, dipingere o scrivere.

Un soggetto testimone della sua scarsa disponibilità organizzativa e rappresentativa che rendono inadeguata ogni produzione pittografica ed espressivo-grafo-alfabetica. Una inadeguatezza che annuncia insufficien­ze nel definire la proporzione, la distanza, la pendenza, la forma, la grandezza, la pressione … espressioni di sè che il soggetto ci invia col proprio tracciato segnico-grafico, per informarci anche in specie sul suo nuovo stato di benessere o di malessere, sul suo equilibrio psicofisico ed emozionale affettivo.

É infatti dalla rappresentazione pitto-segnico-grafica che ci vengono offerte ampie opportunità di lettura del soggetto; è da questa che possono essere tradotti i significati psicologici dei tratti caratteristici dell’opposizione, del compenso, della seduzione, i testimoni dell’impaccio organizzativo cinetico, dell’insufficienza percettiva ecc. Tanti prodotti di sé che, in onore al criterio epigenetico e al concetto di readness, ossia allo sviluppo delle potenzialità e capacità individuali, sono delle insostituibili opportunità per definire una utile confluenza delle iniziative di recupero.

Indirizzati verso la persona dovremo perciò accogliere ogni reazione intima dei complessi psichici sulle differenti apparecchiature organiche e raggiungere tutti quegli aspetti soggettivi, quei modi di espressione che non mettono in gioco solamente le abilità specializzate ma muovono verso il principio dionistico che contiene il pensare, il sentire e il volere.

In tanti, per il desiderio di semplificazione, incoraggiati dal considerare facili i percorsi diagnostici e affatto difficile definire gli itinerari per il recupero, hanno dimenticata la persona e la esigenza di una complessa lettura delle necessità di un soggetto disgrafico. Le esperienze del quotidiano invece, per ridurre i rischi e le ripercussioni degli insuccessi, richiedono sempre più puntuali ricerche per cogliere ogni giustificata differenziazione dei percorsi educativi o terapeutici.

Fasi del grafismo e casualità eterogenee.

Per dare una risposta sul ritardo o la devianza espressivo-segnica in rapporto all’età cronologica dei soggetti è opportuno inseguire la genesi dell’atto grafico e la sua evoluzione. In questo intento potremo riportare delle sintesi o estrapolazioni dai lavori del Lucart, Widlocher, Luquet, Bernson, Chermet, Oliviero Ferraris, Gmelin, Lowenfeld, Goodnow, Eng, Quaglia e Soglione, ecc. ma preferiamo riferire delle essenzialità desunte da alcune nostre ricerche.

  1. a) La scoperta della traccia.

La grafia è un mezzo di espressione e comunicazione e quindi di rapporto; è un linguaggio che si snoda attraverso una storicità propria del bambino, assai simile alla evoluzione degli uomini primitivi.

Per comunicare l’uomo primitivo dovette assumere esperienze gestuali, di organizzazione oculo-manuale, di espressività e di rappresentazione che culminarono con i pittogrammi, messaggi per figurazioni che, a poco a poco, si trasformarono in ideogrammi, cioè in segni convenzionali quali ad esempio i geroglifici e, successivamente, in fonogrammi, ossia modelli segnici non più rappresentanti l’oggetto, la cosa, ma la parola che la indica.

Al fonogramma che rappresentava la parola intera, seguirono la sillaba ed infine il suono isolato. Un percorso, questo, che trova ampia assonanza con le leggi psicologiche che governano la evoluzione espressivo-grafica del bambino.

Trascuriamo, necessariamente, per ragioni di spazio, un’ampia descrizio­ne, per arrivare a dire che l’occasione nella manipolazione di un oggetto tracciante offre al bambino di vedere lasciate delle tracce quando questo è strofinato da qualche parte. Le tracce assai bene si differenziano dalle reazioni circolari e dalle reazione ad “eco” ed il bambino questo aspetto lo coglie con singolarità: lui traccia un segno che persiste nella sua durata davanti ai suoi occhi, un fatto mai accaduto; egli non era riuscito ad ottenere finora niente di tutto ciò e questo gli procura piacere e stimolo. Sono solo dei segni ottenuti occasionalmente su una qualunque superficie, provocati da colpi che se pronunciati su carta spesso sconfinano in veri e propri fori. Che questo accada del resto non deve fare meraviglia dato che il controllo motorio del piccolo è assai limitato e in tale atto anziché addurre l’impegno del braccio e della sola mano proietta tutto il corpo. A questa esperienza seguono tracciati direzionati senza senso finché il bambino non scopre i meccanismi del gesto.

I primi movimenti e i primi tracciati lasciano segni perpendicolari al piano; segmentoidi che vanno a sinistra o a destra a seconda di quale sia la mano tracciante; segue la rappresentazione di tracciati orizzontali o obliqui che partano da un punto centrale del foglio per ritornare ad esso, movimenti a scarabocchio incalzanti da vortici ellittici, da asole e da tracciati circolari. Da questi tracciati omolaterali, in quanto partono da una linea mediana del foglio per ritornare dalla parte della mano tracciante, i gesti si ampliano fino a tracciare segni in senso eterolaterale.

Progressivamente il bambino acquisisce il controllo del gesto e quello del tracciato, una capacità nuova di espressione dalla quale trae un grande piacere; un gioco del quale tuttavia deve studiarne ancora la grammatica. Il controllo cinestesico intanto si perfeziona sempre di più e i tracciati si mostrano meno nervosi e spezzati, l’occhio guida ora la mano e il bambino è in grado di ripassare su un tracciato, di fare un cerchio, una doppia rotazione e quindi una curva, una spirale.

Seguono alcune espressioni pittoriche assai vicine ai pittogrammi e, passando da un controllo elementare ad un controllo più complesso, il bambino riesce a produrre tracce rassomiglianti un modello secondo un ritmo dato, si hanno così i tracciati paralleli, la croce, il quadrato, i cerchi tangenti esternamente, ecc. I segni geometrici quindi assumono forme diverse, trovano sempre più significato per la mano e per l’occhio; i segni sparsi si raggruppano, si integrano, dando una indicazione significante. La comunicazione a mezzo dell’atto grafico diviene certezza, si ripete e si perfeziona, vinti i movimenti parassiti e le possibili sincinesie, acquisiti i processi ideomotori, visivi, spaziali, temporali, ecc., realizzata una buona pressione dello strumento tracciante sul foglio attraverso un equilibrio del tono muscolare e lo spostamento sentito e guidato dal corpo, il bambino è pronto per organizzare e controllare ogni possibilità di dirigere un tracciato in una direzione voluta e di rettificarla, di anticipare, di interrom­pere, di frenare, di riprendere il movimento e di erigere movimenti concatenati.

Una evoluzione che richiede al bambino, via via, un controllo molto vigile dei suoi atti e perciò uno stato profondo di sicurezza emotivo-affettiva nelle interrelazioni con l’ambiente, di fiducia in se stesso.

  1. b) Indici di complessità e di disordine

L’evoluzione storica del segno, propria di soggetti confortati dalla norma­lità non riesce certo a sanare gli interrogativi inquietanti sulla storicità e l’eterogeneità delle cause ad effetto ritardante o deviante l’espressione grafica di una persona. Ciò sostanzia che la genesi e l’evoluzione dell’atto grafico può essere una sorgente interessante di informazioni, ma gli “stadi” e le “fasi” sono sempre troppo modeste per essere utilizzate a fini comparativi con un soggetto con deficit gravato da handicap.

Sconfinati nella complessità della patologia non è molto importante in quale stadio evolutivo di normalità collocare il soggetto, assai più utile sarà invece un serio impegno nella lettura delle carenzialità che iposostanziano o lo inibiscono. Il soggetto può essere dichiarato disgrafico intorno all’età di sette anni, ossia dopo avere partecipato un conveniente periodo in esperienze grafiche e dimostrarsi ancora inabile nell’esprimersi segnicamente, incapace o insufficiente nell’utilizzo dello strumento trac­ciante. Un essere disgrafico, dimostrato dalla sistematica irregolarità nella forma, nella dimensione, nella direzione del segno, con alterazioni nella pressione e inadeguatezza nella riproduzione di modelli, con un grafismo povero, scarsamente automatizzato, frequentemente corretto e cancellato, di cui è ridotta la leggibilità. Il soggetto con disordini nella rappresentazio­ne grafica è un soggetto che “non sa tenere la matita in mano”, che presenta una traccia frammentata, asimmetrica, una incapacità di realizzare angoli retti, una inadeguata distribuzione nello spazio; un soggetto che si presenta con un tracciato segnico senza fluidità, con interruzioni, con moto esitante o troppo energico, una rappresentazione segnica che é testimone di sè, di tutto il suo corpo, la programmatica e la sintassi della sua psiche, della sua emotività, del suo rapporto col mondo. Una sincera ragione di allarme che induce a muovere in suo aiuto, facendo convergere tempestive indagini con significato predittivo e adeguati interventi educativi, rieducativi e psicoterapici.

Osservazione e diagnosi clinica

Il compito diagnostico-clinico è sicuramente difficile, esso risulta dall’attualizzare una metodologia efficace che porti ad una vera conoscen­za scientifica della natura e dello sviluppo del soggetto in difficoltà; si tratta di definire dal punto di vista causale-dinamico del fenomeno le esigenze del soggetto.

La prima osservazione del soggetto che possiamo mettere in atto è tesa ad interpretare ogni comunicazione che esso ci invia per mezzo dei suoi repertori semiotici, un primo contatto con il barometro delle sue abilità e disponibilità; preziosi segni per il nostro estremo bisogno di assumere un ventaglio sempre più vasto di polisemie offertici con spontaneità eiettiva. É con l’utilizzo di questi segni che possiamo iniziare i primi passi verso la realizzazione di una diagnosi che sia funzionale alla prevenzione e al recupero. All’analisi dei segni con cui il soggetto cerca di farsi capire, dovranno perciò seguire eloquenti indagini amnestiche e esami obiettivi. Tra questi ultimi si devono comprendere le diagnosi neuro e psicomotorie e le diagnosi grafo-motorie a cui dovrà seguire un approfondimento diagnostico-clinico per mezzo di test psicologici.

Nell’esposizione, pur incompleta, per chiarezza espositiva teniamo sepa­rati i reattivi che non implicano prove grafiche da quelli che implicano prove grafiche.

Test che non implicano prove grafiche

Queste indagini vanno ad integrare tutto l’iter diagnostico finora seguito (analisi dei segni, anamnesi e esami obiettivi, aspetti percettivi, neuro e psicomotori) e comprendono:

– test di ritenzione visiva (Lalaume)

– test di ricostruzione di figure (subtest Wisc e Rossolino)

– Test dei cubi (subtest Wisc)

– Quadrati di Pieron nell’adattamento di Borel-Maisonny

– Tests di attenzione e di barratura di cifre (Pacaud)

– Test di discriminazione visiva e di attenzione (Banissoni)

– Test di discriminazione visiva, orientamento e attenzione (Toulouse e Pieron)

– Test di ritenzioni di figure (Rossolino)

– Test dei “Deux barrages” (Zazzo)

– “Stick test” di Goldstein

– Test B43 di ragionamento e strutturazione spaziale (Bennardel)

– Test di discriminazione visiva e attenzione (De Sanctis)

– Test di motricità di Gille

– Test di esplorazione dello schema corporeo (Daurat-Meliak)

– Test della rappresentazione motoria (Rossel)

– Test delle gnosie digital (Benton)

– Test di perforazione (subtest Vermeylen)

– Test del fil di ferro (Goguelin)

– Test per le stereotipie (Tardieu)

– Test di imitazione dei gesti (Bérge-Lézine)

– Test di orientamento destra/sinistra (Galifret-Granjon)

– Test per la produzione ritmica di strutture simboliche (Stambak-Lavaudes)

 

Test che implicano prove grafiche

Questi relativi utilizzano il grafismo, quella rappresentazione segnica capace di testimoniare con la ricchezza espositiva del segno tracciato, il teatro interiore di ognuno. Un mezzo segnico di comunicazione quindi col quale il soggetto esprime se stesso, la realtà materiale, i suoi rapporti affettivi e sociali, la sua reattività, le sue tendenze inconsce. Questi test sono quindi una occasione privilegiata di conoscenza della strumentalità, dell’intelligenza e della affettività:

– Visual-motor gestalt test (Bender 1939) adattato da Santucci per bambini di 4-6 anni e da Santucci-Pecheur per bambini dai 6 ai 14 anni

– Test di figure complesse (Rey)

– Test di sviluppo della percezione visiva (Frostig)

– Test di dominanza grafica (Borel-Maisonny)

– Test di semicerchi e delle linee rette (Borel-Maisonny)

– Test di percezione delle fOlme (Neuhaus)

– Test dei labirinti (Porteus, Xisc, Poli)

– Subtest disegni a memoria (Scala Valentine)

– Vision test (Carlevaro)

Molti sono gli strumenti che la psicologia ci ha messo a disposizione, un materiale ricco ed elaborato che basandosi sul di-segno, ovvia all’ansia e all’aspetto dell’esame, facilita largamente l’accettazione, il piacere, il divertimento. Testing per la valutazione clinica capaci di assumere un risvolto ludico mentre consentono proiezioni di elementi riguardanti gli aspetti della personalità e i problemi dell’esaminato. A questi test, agli elementi percettivi, percettivo-motori, all’evoluzione grafica intesa come crescita mentale, il soggetto convoglia inoltre i valori dell’aspetto contenutistico ed espressivo, capaci di fornire elementi di conoscenza del suo mondo interiore, fra questi test in particolare si dovranno tenere presenti:

– Test del disegno della figura umana (Goudenough, Machover, Royer)

– Test del disegno di un albero (Koch)

– Test della famiglia (Corman) e test del disegno cinetico della famiglia

(KFD) di Burns e Kaufman – Disegno libero

– Test di psicologia della scrittura

Ancora sui test

I fatti concernenti il soggetto e il suo entourage che abbiamo, cercato di rilevare, l’osservazione “in azione” e in contatto che permettono al soggetto di cooperare con l’esaminatore, l’indagine psicologica di tipo classico per mezzo di test, potrebbero non apparire ancora esaustivi. Lo psicologo, nonostante la grande quantità di risposte ottenute, potrebbe avere la necessità di ulteriori approfondimenti tra le variabili di personalità e perciò l’utilizzo di ulteriori strumenti proiettivi ed inventari di personalità, quali ad esempio:

– CAT (Bellak) – TAT (Bellak) – Rorschach – Duss – CPQ (Porter-Cattel)

– EPQ (Eysenk).

Si ritiene che solo tutte queste attenzioni a queste letture potranno bene indirizzarci nella individualizzazione di strategie educative e di interventi psicoterapeutici e perciò idonee a rispondere agli stati di necessità riscontrati.

Le strategie educative fino ai nostri giorni

Parlare di involuzione pedagogica potrà apparire offensivo per quanti hanno scritto, specie in questi ultimi anni, sul problema disgrafia e che in particolare hanno voluto affrettarsi nel dare suggerimenti pedagogici operativi. Specialisti che hanno vissuto nella assoluta certezza che nessuno anteriormente a loro sia mai stato angusto e sensibile nel concretare interventi a favore di soggetti con disordini nella grafia. É proprio in virtù di questo stile trionfo che, in atti, non sono riusciti a discostarsi da quanto già appariva nei testi fine ‘800.

In quegli anni si richiamava l’attenzione sul fatto che la scrittura è un disegno e che deriva dal disegno, e che esperienze importanti potevano essere realizzate “su dei segni rappresentanti contorni semplici e facili che richiamano all’occhio e alla immaginazione qualcosa di cosciente e non già lettere che per il bambino possono essere prive di significato”. Già allora si voleva che i soggetti in difficoltà rappresentativo-segniche vivessero esperienze motorie, acquisissero coscienza di “flessione nel discendere e nell’allinearsi nel rimontare, di allontanarsi dal corpo per andare a destra e di avvicinarsi per portarsi a sinistra, il tutto proporzionato alla grandezza delle figure che si devono formare”.

Per ovviare alla riproduzione di quell’unico modello che si ripete e che diventi presto uggioso, indicavano l’utilizzo di modelli con cui agire in apprendimento di forme, proporzioni, grossezze, inclinazioni, ecc. e, riferendosi alla geometria sollecitavano esperienze euritmiche sulle pro­porzioni, esercizi per la mano, per l’occhio, per la spontaneità del gesto, una occasione per disegnare segni retti, misti, curvi, con la penna, col gesso e con ogni altro strumento tracciante.

Già nei primi del novecento si richiedeva di favorire l’apprendimento grafo-segnico per mezzo delle dande quali il quaderno metodico la falsariga ed il sistema del calco. Il quaderno metodico era un quaderno che pre­sentava la traccia del modello a poco a poco diradante e sulla quale il bambino si esercitava ripassando. La falsariga è quell’accorgimento col quale si aiutava l’imitazione del modello con una serie di rette determinanti l’altezza, la durezza e la larghezza delle lettere. Il sistema del calco consisteva invece nel copiare un modello ripassando con lo strumento tracciante non più sulla traccia a filo come nel quaderno metodico, ma sulla traccia risultante per trasparenza del modello sottoposto al foglio in cui si scriveva .. Il disegno su lavagna inoltre si chiedeva che venisse utilizzato per favorire esperienze sulle varie disposizioni della mano nell’uso del gesso tenuto ora di punta, ora di base ed ora di costa, strisciandolo o ruotandolo. Né dimenticavano l’occhio che doveva “assumere abilità nel cogliere e riconoscere, con prontezza e con precisione, la direzione, la forma delle linee degli oggetti e delle cose “che circondavano il bambino. Un sentimento della forma che, dicevano, si svilupperà e si maturerà col vedere, con l’osservare e col toccare, ma anche e soprattutto col fare.

Si potrebbe continuare a riportare elenchi di esercizi indicati in un tempo tanto remoto, ma ci esimiamo perché altro non sono se non gli stessi esercizi riportati nei libri specialistici (?) dei nostri giorni.

A partire dagli anni quaranta esercizi, tecniche, metodologie di intervento ci vengono indicate dal Marcucci, il quale non giudica arduo ripetere, come da tanti si sapeva e lo avevano scritto, che con l’uso dei modellini e il ripasso dei contorni interni ed esterni si poteva aiutare il disgrafico. Così è per il Trillat, assai prossimo ai nostri giorni, il quale indica che “i primi esercizi da eseguire sono dei movimenti di ritmo e di ammorbidimento realizzati seguendo l’incavo di forma circolare di una tavoletta di plastica”, oppure: “educare la mano a seguire la traccia con l’indice, poi spingere una piccola biglia nel solco … “. Nè sono molto più ricchi i suggerimenti del Lurcat, del Galmy, di Octor e Karezmarek, del Deva, del Valot, di Durand e di Gauthier.

Una copia delle linee operative -della fine ‘800 la troviamo esposta, ad esempio, anche negli obiettivi espressi in termini comportamentali nei programmi di Fredericks, di Bender-Valetutti-Bender o di Radabaugh, unica differenza é che del ‘900 non si utilizzavano i termini TaskAnalysis, prompting o fading.

Anche la tecnica di Olivaur non si esime dal suggerire esercizi gestuali simili a quelli generati tanti anni prima ed esercizi grafici che nel proporre coppe, archi o spirali, realizzati con differente rapidità e pressione non si discostano da quelli già in precedenza sperimentati.

Tante tecniche, quindi, metodologie prodotte in copia di un lontano sa­pere, tecniche che evidentemente non nascono da un coniugio con la ricerca ma da una inseminazione artificiale, prodotto di traslocazione.

Il laboratorio

Il laboratorio è l’unico che può offrire l’occasione per coniugare il sapere ed il conoscere di ieri e di oggi, favorire l’opportunità di un cumulo di riflessioni che possono scaturire durante il fare, nel proposito del dare al soggetto ogni supporto necessario. Un laboratorio sulla disgrafia che intenda tener conto di come si può procedere con finalità educative e rieducative che perciò è in obbligo di rifiutare l’ammaestramento per valorizzare e favorire azione e creazione.

L’allestimento di un laboratorio chiede un materiale destinato a ricevere i segni pitto-grafo-figurativi e simbolici, fra cui tavolette di cera, pergamena, palinsesti, carta bambagina, contenitori di sabbia, DAS, creta, pareti attrezzate con lavagna con fogli di carta e con materiale su cui poter scrivere con i pennarelli, ecc.

Nel laboratorio tutti gli strumenti traccianti devono essere presenti, come lo scalpello, il calamo, la penna d’oca o di altri volatili, le penne metalliche, lapis, gesso, pennarelli, pennelli, pitture atossiche o ipoallergiche per tracciare con le dita, bombolette spray, ecc.; così pure nel laboratorio si dovrà provvedere alla fabbrica di inchiostri.

Il laboratorio dovrà offrire l’opportunità di ricerca dei caratteri diversi, maiuscoli, minuscoli, in corsivo, caratteri della scrittura inglese, italiana, gotica, delle scritture lapidarie, della stampa e della litografia, così come sarebbe opportuno il confronto sugli ornamenti calligrafici.

Assunto tutto il materiale necessario nel laboratorio si dovrà dare inizio quindi ad esperienze di riproduzione di esemplari scritti sulla lavagna e trasferiti sul quaderno o sul foglio, un passaggio dal verticale all’orizzontale. Un tracciare che è opportuno venga realizzato su fogli di carta grandi perché dia ai soggetti l’opportunità di partecipare una esperienza cinestetica capace realmente di favorire risposte propriocettive della durata, intensità e frenata del gesto.

Una gestualità che dovrà essere modulata sul ritmo, la melodia, l’armonia, la tonematica e che lascerà tracce geometriche o traiettorie diverse con mono o bilateralità manuale.

I tracciati potranno essere anche quelli di Fredericks (976) o del Marcucci (940), ma dovranno almeno essere in rapporto al ritmo e alla frequenza respiratoria, organizzati su di un asse corporeo e resi su diverse posturalità. Ad affiancare il disegno spontaneo, il disegno geometrico, il disegno ornamentale, contemporaneamente alla esperienza percettiva nell’individuazione della forma di caratteri alfabetici diversi, non dovranno essere assenti le esperienze di costruzione per mezzo di attività manuali, il riprodurre la forma degli oggetti, delle cose o delle linee osservate, con origami, stecche di legno, supporti di cartone, ritaglio, ecc.

Pochi accenni per una coralità polifonica tanto complessa ma, credo sufficienti per capire quanto, abortita l’ignoranza e la glorificazione di un sapere copiato, sia possibile far confluire le esperienze di tutti in un arricchimento nutrizionale, prodromo di nuove autentiche risposte.

Da questa descrizione delle metodologie e degli interventi a favore del soggetto che manifesta disgrafia non appaiono le risposte esaustive che il lettore si poteva immaginare dopo avere letto la lunga stesura degli item utilizzati per la diagnosi. In effetti è così, non appaiono risposte esaustive né nel percorso pedagogico né tantomeno in quello psicoterapeutico che si era comunque reputato indispensabile, ma questa inesaustiva stesura dovrebbe proprio servire come stimolo a spingere l’occhio verso orizzonti sempre più lontani.

In Rivista Educazione Permanente – Università degli Studi di Siena, 1-2/92

ISFAR viale Europa 185/b Firenze, info@isfar-firenze.it – web: www.isfar-firenze.it

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