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SERGIO GAIFFI

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“Ogni fenomeno psicologico è un simbolo, se si suppone che esso affermi o significhi qualcosa di più e di diverso che per il momento si sottrae alla nostra conoscenza” C.G. Jung

I simboli non sembrano sottostare ai mu­tare dei tempi, non si curano di aderire ai frammenti della realtà e riposano in un mondo tutto a parte rispetto a quello rea­le e visibile. La loro presenza ci rassicura sul fatto che le nostre origini sono sem­pre lì a portata di mano e che nessun pro­gresso tecnologico, nessuna evoluzione scientifica può distrarci dalla loro segreta influenza.

I simboli scaturiscono da una sorgente pe­renne che è il centro dell’energia vitale del mondo.

Basta abbandonarsi alla suggestione di immagini come quelle dell’uovo cosmico, della fata, della strega e della notte per­ché si aprano le porte di un mondo in cui sono contenute le linee genetiche dei no­stri sogni, e le tracce della nostra memo­ria collettiva.

In un’epoca che ha sempre meno anima e che sembra aver rinunciato ai suoi miti, ricollegarsi ai simboli arcaici è un modo per ritrovare una traccia, per riscoprire quei solco che ci unisce al tessuto psichi­co universale, cui appartiene la trama del­la coscienza dell’universo; « dire che vi­viamo in un mondo di simboli è poco: un mondo di simboli vive in noi ».

Dal punto di vista etimologico, la parola simbolo viene dal greco sumbàllein che significa « mettere assieme ». Un sumbalon era in origine un segno di riconoscimento, un oggetto tagliato in due metà il cui accostamento permetteva ai portatori di ognuna delle due parti di riconoscersi an­che senza mai essersi visti prima.

Questo significato evoca un’idea di unità divisa che può però riunirsi. Ogni simbolo comporta una parte di se­gno spezzato: il senso del simbolo si sco­pre nel fatto che esso è insieme sfaldatura e legame dei due termini separati; rifacendomi a Hugo Von Hofmannstahal, « es­so allontana ciò che è vicino e avvicina ciò che è lontano in modo che il sentimen­to possa cogliere l’uno e l’altro ».

Il simbolo differisce poi dal semplice se­gno perché indica il limite e la necessità di superamento.

Il segno ci collega essenzialmente al pre­sente razionale e contiene qualcosa di meno del concetto che rappresenta, men­tre il simbolo ci rimanda ad ulteriorità non predeterminate cariche di molteplici signi­ficati, rinvia ad un contenuto più ampio di quanto sia il suo senso immediato ed evi­dente; è composto da un elemento incon­scio e da uno conscio, rivela un fondo primitivo ed una elaborazione superiore. Un’espressione, posta per una cosa no­ta, rimane sempre un puro segno e non è mai un simbolo; infatti mentre il segno compone in modo convenzionamento associativo qualcosa con qualcos’altro, il simbolo, evocando la sua parte corrispon­dente sconosciuta, rinvia ad una determinata realtà che non è decisa dalla con­venzione ma dal senso della ricomposizione di un intero e, allontanandosi dal significato convenzionale, apre la via l’interpretazionale soggettiva; con il segno restiamo su una strada continua e sicu­ra, il simbolo presuppone una rottura, una discontinuità, un passaggio ad un altro or­dine, ad altre dimensioni.

Analizzare intellettualmente un simbolo — dice Pierre Emmanuel — equivale a pe­lare una cipolla per trovare la cipolla’, simbolo non può essere acquisito per ri­duzione progressiva a ciò che simbolo non è, perché esiste proprio in virtù del­l’elemento inafferrabile che lo fonda.

La coscienza simbolica è una, indivisibile e può esserlo solo grazie all’intuizione del­l’altro termine che esso esprime e insieme nasconde. Esso si libera e fugge via e si cela nella misura in cui si rivela: secondo la formula di Georges Gurvitch, i simboli rivelano celando e celano rivelando.

Ogni prodotto psichico, in quanto espres­sione migliore di un dato di fatto ancora ignoto o solo relativamente noto, può es­sere, considerato come un simbolo, nel senso che si è inclini a ritenere tale espres­sione come indicazione anche di ciò che si è solo intuito e non si è ancora del tutto conosciuto.

Ma il pensiero simbolico, a mio parere, al contrario di quello scientifico, non proce­de per riduzione dal molteplice all’uno ma, per esplosione, dall’uno verso il molteplice, per far meglio percepire, in un secon­do tempo, l’unità di questo molteplice.

Il simbolo è sempre una formazione di natura altamente complessa perché si compone di dati appartenenti a tutte le funzioni psichiche. Non è di natura razio­nale, né di natura irrazionale. Ha infatti un dato aperto alla ragione, ma anche un altro ad essa refrattario; la ricchez­za di presentimento e la pregnanza di si­gnificato, proprie del simbolo, parlano sia al pensiero che al sentimento e la pecu­liare immaginosità, nell’atto in cui si pla­sma nella torma sensibile, eccita sia la sensazione che l’intuizione.

li simbolo annuncia un piano di conoscen­za diverso dall’evidenza razionale; è la ci­fra di un mistero, il solo mezzo per dire ciò che non può essere comunicato altri­menti, che non è mai spiegato una volta per tutte ma deve essere continuamente decifrato, come una partitura musicale non è mai decifrata una volta per tutte ma richiede esecuzioni sempre nuove.

La relazione tra il simbolo e ciò che viene simbolizzato non è coincidente ma intrin­seca; essa è radicata nell’esperienza dell’affettività esistente tra un’emozione o un pensiero da una parte e un’esperienza sensoriale dall’altra. Il simbolo ci rinvia a qualcosa di ignoto o di relativamente conosciuto per cui, co­me sostiene Jung, il significato simbolico e il significato semeiotico sono cose com­pletamente diversi: il simbolo contiene un’eccedenza di senso rispetto al signifi­cato conosciuto e la sua forza simbolica dura finché dura questa eccedenza.

Freud nel simbolo ritrovava soprattutto il segno dei primitivi impulsi sessuali dell’in­dividuo, Jung era invece convinto del va­lore transpersonale del simbolo da lui concepito come trasformatore di energia del meccanismo psichico.

Il concetto di simbolo è entrato stabilmente nel mondo linguistico della mitologia cri­stiana come caratterizzazione di determi­nati contenuti dogmatici e processi religio­si: è difficile trovare un campo dello spirito, si tratti di mitologia, filosofia o arte in cui la parola « simbolo » non sia stata impiegata. Anche in questo campo le ricerche di Jung sono state pionieristiche ed è gra­zie ad esse che abbiamo potuto renderci canto del posto preminente che spet­ta ai simbolo nella psiche umana e quin­di anche nell’intera storia della civiltà.

Per Jung parlare di simbolo significa par­lare di inconscio, di libido, di modalità e­spressive della psiche tutta intera. Il simbolo, infatti, non è un’allegoria né un se­gno, ma l’immagine di un contenuto che trascende la coscienza e che si rivolge quindi sempre a tutta la psiche, sia alla parte conscia che a quella inconscia.

Per queste sue caratteristiche il simbolo è deputato a render conto dei processi che si svolgono nella totalità della psiche e ad esprimere i pio intricati e contrastanti stati psichici.

« Che una cosa sia un simbolo o no, di­pende anzitutto all’atteggiamento della co­scienza che osserva » avverte Jung.

Infatti i simboli possono degenerare in meri segni e diventare simboli morti se il sen­so nascosto ne/simbolo si palesa al punto che possiamo afferrarlo con la ragione. È per questo c’è la Croce ad esempio, può essere per un individuo solo un se­gno esteriore di una certa religione, men­tre per un altro può evocare l’intera storia della Passione.

Per il primo caso Jung parlerebbe di un simbolo morto, per il secondo di un sim­bolo vivo:

“ il simbolo vivo è la formulazione di un aspetto essenziale dell’inconscio e quanto più universalmente questo aspetto è dif­fuso tanto più universale è anche l’azio­ne del simbolo giacché fa vibrare una corda affine in ciascuno”.

Anche se non credo sia completamente condivisibile il concetto di universalità dei simboli, ritengo che ad essi vada ricono­sciuto il valore collettivo e culturale; va infatti rilevato che l‘accezione di universalità trascende il tempo e l’organizzazione so­ciale, mentre i principi di collettività e di cultura sono contingenti e relativi ed esclu­dono per assunto l’immutabilità.

È per questo che penso si debba parlare di « dialetti » determinati da quelle differen­ze di condizioni naturali per cui certi sim­boli assumono diversi e molteplici signi­ficati nelle diverse regioni della terra.

Per esempio, la funzione e di conseguen­za il significato del sole è diverso nei paesi nordici e in quelli tropicali. Nei paesi nor­dici, in cui vi è abbondanza d’acqua, ogni tipo di crescita è condizionato da una suf­ficiente quantità di soie: il soie è l’amato potere fonte di calore, di vita e di prote­zione. Invece dove il suo calore è molto forte è una potenza pericolosa e perfino minacciosa da cui l’uomo deve difendersi, mentre l’acqua è considerata la sorgen­te della vita e la condizione principale per ogni tipo di crescita.

Quello del simbolo lo considero comun­que, come un linguaggio dimenticato co­mune all’umanità, è infatti potenzialmente accessibile ad ogni essere umano senza passare per gli artifici delle lingue pariate ed emana dalla psiche nella sua interezza, è un linguaggio che non esprime so­lo la derivazione da una causa, ma anche il perseguimento di un fine.

Il simbolo si riscontra presso tutte le ci­viltà, tanto in quelle cosiddette primitive, come in quelle altamente progredite e i simboli usati da queste varie civiltà sono singolarmente analoghi, dato che risalgo­no tutti alle basilari esperienze sensoriali ed emotive condivise da tutti gli uomini. La nostra conoscenza del mondo ha fat­to seguito ali’esplorazione che la nostra sensibilità faceva dell’universo con il quale tentava di identificarsi. L’analogia che le tradizionali antiche stabi­livano tra il microcosmo ed il macroco­smo, crede sia la vera chiave del simbo­lismo figurativo che utilizza gli elementi della natura per esprimere le concezioni dello spirito.

Le antiche scritture sacre avevano simbolizzato questa umanizzazione del cosmo nella figura dell’Adamo Kadmon della ca­bala e dell’Uomo universale dell’Islam. Dritto, la testa tra le nubi e i piedi sulla ter­ra, l’antico Adamo prendeva possesso del cosmo riconoscendo un mondo spiritua­le nei cieli, un mondo psichico nella zona intermedia dello spazio aereo e un mon­do carnale sul piano terrestre, concezio­ne mitica che nell’ermetismo occidentale corrisponde all’Androgino primordiale.

Questa nozione ha permesso d’introdur­re nel simbolismo una dualità complemen­tare che spiega la sua essenza ambivalente, un’essenza che può rivelare un’in­tera storia, un’antica leggenda, una lontana tradizione. Grazie al simbolo che si ricollega in una immensa rete di relazioni, l’uomo non si sente solo nell’universo. L’immagine diventa simbolo e il suo va­lore si dilata al punto di collegare nell’uo­mo le sue profondità immanenti e una trascendenza infinita.

I simboli hanno la capacità di introdurci nel cuore dell’individualità e nello stes­so tempo, nel sociale; chi penetra nel senso dei simboli di una persona o di un popolo ha modo di conoscere a fondo questa persona o questo popolo.

Il pensiero simbolico risiede in una delle forme di ciò che Pierre Emmanuel chiama “l’osmosi continua tra interno ed esterno”.

Con semplici intuizioni, l’individuo prova la sensazione di appartenere ad un insie­me che lo turba e lo rassicura nello stes­so tempo, ma che lo esercita a vivere. Qualcuno a volte, oggi, del simbolo, non ne ricorda o non ne coglie il significato ma continua ad usarlo, ad adorarlo, a riprodurlo, a proteggerne la forma, affascinato inconsciamente dal mistero che da esso si sprigiona. Platone, riferendo il mito di “Zeus che volendo castigare l’uomo sen­za distruggerlo lo tagliò in due”, conclude che da allora “ciascuno di noi è il simbo­lo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente e il sim­bolo potrebbe allora costituire l’espressio­ne sintetica di una scienza meravigliosa, rivelatrice del complesso “meccanismo” della terra e del cielo, capace di spiegarci meglio gli “ingranaggi” dell’ancora mi­steriosa “macchina umana”.

Resistere ai simboli significa amputare una parte di sé, impoverire la natura stessa e fuggire, per malinteso realismo, il più au­tentico appello a una vita integrale.

Da Rivista L’insegnante specializzato, 2/94

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